Che sia tutto malvagio e corrotto

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Certo, è come una mandria di buoi che dànno del cornuto a un asino, ma la lettera con cui Sandro Bondi risponde a un articolo da buco della serratura su di lui e  la sua compagna dice delle cose vere, e le dice bene.

E siccome qui si cerca di non essere né buoi né asini, se ne possono condividere alcuni passaggi:

L’amarezza e lo stupore scaturiscono soprattutto dal modo in cui certi giornali e certi giornalisti svolgono la propria professione. Si prende la penna, non per raccontare la realtà, ma con l’obiettivo prefissato di distruggere l’immagine di una persona, con lo scopo di fare proprio del male alle persone che vengono messe nel mirino. Non importa se la raffigurazione che si offre sia falsa, che le notizie siano inventate di sana pianta. L’importante è suscitare la riprovazione dei lettori, addirittura la ripulsa verso tanto presunto schifo.

Ma c’è ancor di peggio in questo modo di esercitare la professione di giornalista: c’è l’idea che nella vita non vi sia nulla di buono, di bello e di puro. C’è l’idea che tutto sia malvagio e corrotto.

Ho qualche dubbio che Bondi estenderebbe la descrizione al capostipite di questi, Alfonso Signorini, acclaratamente al servizio di Silvio Berlusconi, ma quell’atteggiamento insulso per cui si dà per scontata la malvagità e la corruzione altrui, la necessità di un doppio fine, è la vera dimostrazione di una società piccola piccola che non si limita a esserlo, ma misura gli altri con il proprio poco invidiabile metro: negando, di fatto, la possibilità di un’umanità tersa, disinteressata e felice.

Don’t tell me about the press

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Erano un paio d’anni che tenevo questo post nel cassetto, aspettando il momento più adatto per pubblicarlo. Oggi, ché ci sono le elezioni nel Regno Unito, mi sembra il giorno giusto.

Ieri Francesco aveva segnalato il grafico del Guardian che fotografa l’orientamento politico dei varî giornali britannici. Ma cosa volete più di questa sublime esegesi?

J. Hacker: “Don’t tell me about the press. I know exactly who reads the papers. The Daily Mirror is read by people who think they run the country. The Guardian is read by people who think they ought to run the country. The Times is read by the people who actually do run the country. The Daily Mail is read by the wives of the people who run the country. The Financial Times is read by people who own the country. The Morning Star is read by people who think the country ought to be run by another country. And The Daily Telegraph is read by people who think it is”.

Sir H. Appleby: “Prime Minister, what about the people who read The Sun?”

B. Woolley: “Sun readers don’t care who runs the country, as long as she’s got big tits”

Ha più di vent’anni, se li porta bene.

Hanging

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Domani si vota in Inghilterra, oggi leggetevi questo per capirne qualcosa.

(Io spero che vinca quello che perderà, cioè Brown).

All’indice!

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Questa immagine, tratta da qui, raccoglie la top ten dei libri più segnalati come inappropriati nelle biblioteche americane per tutto lo scorso anno. Le freccette spiegano le ragioni per cui i libri sono considerati “sconvenienti”, e sono le più diverse: da cose ragionevoli come il razzismo o il sessismo, a cose più bacchettone come il suicidio o la retorica antifamiliare, fino a cose del tutto irragionevoli come la nudità o l’omosessualità.

Di cose curiose ce ne sono: il Giovane Holden – che destò comprensibile scandalo al tempo della pubblicazione – ma che è tutt’ora sesto nella classifica dei libri più segnalati perché sessualmente esplicito, inappropriato per i più giovani, e contenente un linguaggio offensivo. C’è La custode di mia sorella, quello del film con Cameron Diaz, che le raccoglie tutte: dalla droga al suicidio, dal sessiamo all’omosessualità, passando per la violenza e l’immancabile linguaggio offensivo. C’è poi la saga di Twilight perché “esprime un punto di vista religioso” – non sto scherzando – oltre a linguaggio offensivo e l’età inadatta. Al primo posto c’è una serie di romanzi per adolescenti scritta interamente in “linguaggio sms”, o linguaggio di chat, per diverse ragioni dalle droghe alla nudità. E poi c’è al secondo posto, And Tango Makes Three, il libro di cui si era parlato anche in Italia dei due pinguini, maschi, che “adottano” un piccolo pinguino. Come immaginerete il libro ha scalato le classifiche grazie a un solo tema: quello dell’omosessualità. Su cui, evidentemente, i pinguini sono più avanti degli esseri umani.

Vi consiglio di cliccare sopra l’immagine per ingrandirla:

Pulirsi il culo con la bandiera

In Francia un ragazzo, Frédéric Laurent, ha deciso di partecipare a un concorso fotografico per la categoria “provocazioni” con questa foto:

Se ne è levato un piccolo scandalo – di quello sciovinismo francese un po’ sciocco – con interrogazioni parlamentari, supposte multe di 7.500 euro, e reazioni indignate. Ovviamente, a me, quella foto non fa un’ottima impressione né mi sembra così provocatoria, ma l’idea che c’è dietro è carina perché traduce in immagine un modo di dire piuttosto comune. Poi, un giorno, bisognerà riparlare di questa ossessione per i simboli, di quanto il patriottismo sia l’ultimo rifugio delle canaglie (S. Johnson), e di come il concetto stesso di “offesa” alle entità anziché alle persone andrebbe molto ridimensionato.

Io la so già l’obiezione: però quando lo fa Bossi gli dài contro. Intanto c’è una differenza costitutiva nell’invitare qualcuno a ficcarsi un oggetto nel culo – proprio perché l’insulto è a una persona – e poi non è certo per le sue idee sull’uso della bandiera Italiana che Bossi è spregevole. I reati di vilipendio, come tutti i reati d’opinione, sono una sciocchezza. È un modo abborracciato di cercare di difendersi dalle idee più pericolose, e spesso controproducente: anche nei casi limite, come i nazisti o gli juventini.

grazie a Franco

p.s. la parola “culo” nel titolo è una scelta di trasparenza, e così in avanti: quella direi, quella scrivo.

Giustizia e libertà

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Generalmente sono più antiberlusconiano, se così si può dire, delle persone con cui vado d’accordo – di solito – su altri temi. Ultimamente – per fare un esempio – mi ha colpito una cosa: a me le idee politiche di Vianello, nella valutazione dell’uomo, interessavano.

È chiaro, nessun individuo dotato di buon senso può ammirare l’operato di Berlusconi come Presidente del Consiglio, ma la malsopportazione che ho io va oltre la categoria politica: risiede in quell’elaborato dell’italianità peggiore che Berlusconi è, e rappresenta, con il suo atteggiamento verso le donne; la sua pretesa d’essere invidiato per degli atteggiamenti che in qualunque occhio critico generano soltanto desolazione. L’autocompiacimento di quello che – in un post quasi liberatorio – avevo definito un millantatore in punta di cazzo mi genera una ben poco ragionata rabbia: non sono in disaccordo, mi fa proprio imbestialire.

C’è, però, una cosa che mi ha sempre allontanato dalle più folte schiere degli oppositori monocratici di Berlusconi, un sinuoso atteggiamento di fondo che arrivo a presagire dalle prime frasi lette o ascoltate. Si tratta del furore punitivo, della gioia per interposta incarcerazione, dell’odio metodico, che molte persone – oserei dire “insospettabili” – hanno maturato. È come se un cruccio livido si fosse riuscito a insinuare in persone onestamente di sinistra – come un riflesso sciocco all’autoconcessa improcessabilità di Berlusconi – e questo rivoltamento avesse trovato una misura precisa, e neanche troppo nascosta, di disprezzo nei confronti dei detenuti, di presunzione di colpevolezza e coazione alla punizione che, ho paura, sarà davvero il peggior lascito di questi vent’anni di scena politica di Berlusconi.

Ricordo il mio costernato stupore, in una discussione che ebbi tanto tempo fa, sull’indulto: una mia interlocutrice, indiscutibilmente attenta alle cause dei più deboli del mondo, che affermava – con queste parole – di preferire 67 persone in carcere, fra cui Previti, al costo della violazione dello Stato di Diritto di 14.000 individui. Penso che quasi tutti i peggiori vizî della sinistra attuale vengano a cascata da lì: la violenza punitiva, l’atteggiamento inquisitorio, la professionale e clinica mancanza di fiducia. Quella compulsione al trovare un lato oscuro anche quando non c’è – e quindi anche al complottismo – che, da che mondo e mondo, era tutto ciò che non apparteneva al progressismo (tutte cose che, in realtà, aveva immortalato Staino in una splendida vignetta qualche anno fa).

Ci ho ripensato ieri, quando ho ascoltato questa intensa storia. È una puntata di una trasmissione – This American Life – che mi ha consigliato Max, e che è sempre fatta molto bene. Questo qui è un racconto bellissimo di un ragazzo – non più ragazzo – che ha ucciso un uomo durante una rapina. Da quel momento ha fatto 27 anni di carcere e comportamento esemplare: si è laureato, è diventato assistente carcerario per le questioni di droga, non ha mai fumato una sigaretta dove non si può. La sua voce, quello che dice, infonde di umanità tutto il contorno: è assolutamente ovvio che non abbia alcun senso ch’egli sia, ancora, privato della libertà.

La trasmissione – purtroppo – è in inglese, ma è un inglese piuttosto scandito. Ho tagliato il file in modo che ci fosse solo questa storia, cosicché sia più facile ascoltarla seguendo il filo conduttore del racconto: il file è qui, potete scaricarvela sull’ipod e ascoltarla in metropolitana, oppure basta premere “Play” in fondo al post.

Se non vi commuovete, se non sperate ardentemente per tutto il tempo che questa persona sia liberata – perché la giustizia! – se non vivete la sofferenza di quest’uomo, e non la percepite nella stessa metà del cielo – e non come contraltare – a quella della povera persona che ha ucciso, beh, penso che – uscito di scena quel Silvio Berlusconi – dovrete fare una lunga dieta.

This American Life

P.s. La prigione di cui si parla nel racconto è San Quentin.

Ancora su Emergency

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Le invettive del Giornale e di Libero ai tre di Emergency sono della peggior specie: tipiche accuse che vengono fatte nelle dittature ai dissidenti. Ingrati! Sputate nel piatto dove mangiate – il modo di dire più idiota. Solo nei regimi non si sputa nel piatto dove si mangia: perché criticare il piatto in cui si mangia è l’unico modo per migliorarlo, per trovare tutte le cose che non vanno, e cercare di metterle a posto.

Io penso che ognuno possa – e debba – dire ciò che vuole, e che tutti gli altri possano – e debbano – contestare tutte le cretinate che uno dice, in piena libertà: ciò che ha detto Marco Garatti è una vaccata colossale, e riflette precisamente quell’equivoco di cui si era parlato:

Noi non facciamo politica – ha detto il chirurgo rispondendo alle accuse fatte all’ong – descriviamo quello che succede. Per noi un attentatore suicida non è peggio o meglio di chi scarica bombe perché entrambi fanno morti. Noi non abbiamo mai preso posizione per una o per l’altra parte.

Ci sono davvero pochi modi per definire una persona che dice una cosa del genere, mi dispiace: scemo, sciocco, di poco senno.

Allora caro Marco, intanto sì, fai esattamente politica. Una dichiarazione di questo genere è, nella sua essenza più piena e completa, politica. E una politica pessima, sbagliata, complice: come ti salta in mente di dire che gli attentatori suicidi sono uguali ai soldati dell’ISAF? Perché fanno entrambi morti? Domani è il 25 aprile – anche i partigiani facevano dei morti, anche l’epidurale, anche i fulmini.

Sostieni che non siano né meglio né peggio, cioè che a parti invertite non cambierebbe nulla, che l’obiettivo della coalizione è uccidere più persone possibile, come lo è quello di Al Qaida. Proviamo a immaginarlo, un attimo, questo scenario: cosa succederebbe se Al Qaida avesse l’esercito più potente del mondo? Intanto, sicuramente, non saremmo qui per raccontarlo. Chiunque abbia il concetto più elementare di libertà, per gli estremisti islamici, è un nemico e deve essere ucciso: chiunque creda che gli omosessuali non devono essere trucidati, e che una donna non debba essere stuprata dal marito, fatto fuori. C’è qualche dubbio che l’organizzazione che ha ucciso 3000 persone a New York, ne avrebbe uccise 5000 se avesse potuto? Non c’è.

Invece proviamo a immaginare la tua ipotesi – Osama Bin Laden interviene con il suo esercito negli Stati Uniti: nel corso dell’occupazione militare gli americani votano per eleggere il loro governo, e durante queste elezioni le milizie di Al Qaida vigilano affinché nessuno possa fare del male a chi va a votare. Alle donne è data la possibilità di non mettere il burqa, operazione alla quale il Mullah Omar e il suo esercito guardano di buon occhio. Allo stesso modo gli omosessuali non vengono uccisi a sassate. È in vigore la più ampia libertà religiosa, Bin Laden e il suo gabinetto fanno pressioni perché la laicità sia garantita. Delle volte questi sforzi non riescono, la mentalità degli americani è un po’ arretrata e la democrazia paga questo difetto. Ma il problema più serio nel Paese sono Obama e il suo esercito: ogni giorno nei mercati di Los Angeles e Filadelfia i soldati di Obama, imbottiti di tritolo bulloni e veleno per topi, si fanno esplodere cercando di far morire il maggior numero di persone possibile. La stragrande maggioranza delle vittime sono dei loro connazionali, che hanno come unica colpa quella di essere andati al mercato. Il giorno precedente le elezioni Barack Obama rilascia un comunicato in cui minaccia di tagliare le mani tutti coloro che si azzarderanno ad andare a votare: il giorno successivo diversi squadroni della morte dei Marines lanciano colpi di mortaio contro le file davanti ai seggi. Ogni qualche mese – e mentre progetta stragi di civili nelle capitali di tutta Europa – Obama rilascia un video in cui intima a tutto il mondo di sottomettersi alla forma più medievale di Cristianesimo, minacciando di morte tutti coloro che non accettano la conversione.

Come ci si può non rendere conto di quanto tutto ciò sia ridicolo?

Il problema è che, sono certo, se un giorno mi trovassi davvero a discutere con Garatti – o Strada – di queste cose, loro mi accuserebbero di “tifare” per gli americani, di essere pagato da qualcuno o indottrinato dalla tv: lo stesso tipo di delegittimazioni del pensiero che fanno, con loro, Libero e Il Giornale.

Grazie a Saverio

Alla fritta

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In Belgio ce n’è di confusione:

  • Ha presentato le dimissioni – dopo aver ammesso il ripetuto stupro di un ragazzino – il più longevo vescovo belga, Roger Vangheluwe. Ratzinger ha accettato le dimissioni. Vangheluwe era un personaggio di spicco del cattolicesimo belga, in passato aveva proposto il diaconato femminile. È il primo caso di pubblica ammissione per quanto riguarda il clero belga, e potrebbe avere ripercussioni notevoli, sia perché il Belgio – dalla tragedia di Marcinelle – è lo Stato la cui opinione pubblica è più attenta al tema, sia perché si è scoperto che il Cardinale Godfried Danneels, diretto superiore di Vangheluwe negli Anni ’90, era al corrente degli abusi.
  • Oggi doveva essere il giorno era prevista la votazione della legge che doveva imporre il divieto assoluto d’indossare in pubblico il Burqa e il Niqab. Tutti gli articoli che ho trovato parlano di “primo Stato in Europa”, ho fatto mente locale e cercato dove fosse già vietato – mi sembra strano che una notizia del genere mi sia sfuggita, in passato. Ricordo di dibattiti e proposte di legge su divieti parziali/locali, o completi non ancora andati in porto, in Francia, Olanda e Canada. Qualcuno si ricorda, o trova qualcosa di più?
  • Tuttavia il voto della legge anti-burqa è stato rimandato per la crisi di governo che ha bloccato qualunque azione legislativa. Il mandato è ora in mano al Re, che sta organizzando dei colloqui con le varie forze politiche per cercare di rimettere in piedi il (o un) governo, dopo l’offerta di dimissioni del Primo Ministro Yves Leterme.
  • In tutto questo, il principale quotidiano francofono belga ha parlato delle conseguenze della crisi in termini davvero drastici, e in un editoriale dal titolo eloquente – Questo Paese ha ancora un senso? – ha ventilato l’ipotesi di una scissione fra fiamminghi e valloni.

EDIT: vedo ora un pezzo del Post che raccontava tante delle cose scritte qui, e aggiungeva questa.

La falsa religione della pace in Medioriente

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Capita spesso che qualcuno mi chieda delle opinioni sul conflitto arabo-israeliano, sarà per i mesi passati in Palestina, sarà perché ne parlo spesso. Le mie risposte deludono sempre l’interlocutore, perché – ottimista e ciecamente progressista come sono – questi si aspetta qualcosa di diverso dal mio disincanto. Invece, purtroppo, la mia soluzione è che non c’è soluzione. Più precisamente che la soluzione c’è, la sanno tutti qual è – 95% dei territorî del ’67, Gerusalemme Est, 100.000 profughi, eccetera – ma non la vuole nessuno. È anche inutile discutere se sia giusta o sbagliata, tanto chiunque sa che quella è l’unica pace disponibile: fra 5 anni, fra 100, domani o mai. Il problema è che entrambe le parti vogliono “mai”.

Oggi ho letto un articolo di Foreign Policy, davvero completo – e perciò non brevissimo – che riassume tutte le ragioni per cui la pace è un’illusione. Il titolo The False Religion of Mideast Peace (And why I’m no longer a believer) descrive perfettamente la sostanza vera e gravosa dell’articolo: credere nella pace è diventata una fede, basata più su un wishful thinking che su dei dati veri e proprî. Essere profeti di sventure è la cosa più facile del mondo, mi guardo bene dal farlo, ma ogni tanto le sventure ci sono, e c’è davvero poco da fare:

And I continued to do so, all the way through the 1990s, the only decade in the last half of the 20th century in which there was no major Arab-Israeli war. Instead, this was the decade of the Madrid conference, the Oslo accords, the Israel-Jordan peace treaty, regional accords on economic issues, and a historic bid in the final year of the Clinton administration to negotiate peace agreements between Israel, Syria, and the Palestinians. But for a variety of reasons, not the least of which was the Arab, Palestinian, Israeli (and American) unwillingness to recognize what price each side would have to pay to achieve those agreements, the decade ended badly, leaving the pursuit of peace bloody, battered, and broken. Perhaps the most serious casualty was the loss of hope that negotiations could actually get the Arabs and Israelis what they wanted.

And that has been the story line ever since: more process than peace.

Siccome stiamo parlando di Israele e Palestina vi segnalo altre cose che non meritavano un post ma che mi ero appuntato in passato:

  • Un bell’articolo di Ha’aretz che spiega perché la soluzione dello stato unico non è neanche da applicare: c’è già. Descrive bene l’abulia dell’Israele di oggi, che – in ogni caso – quella soluzione non accetterà mai.
  • Un travelog di Robert Fisk fra Israele e Palestina: Fisk è ottimo quando critica gli israeliani, ed è decisamente troppo (notoriamente) indulgente nel giustificare – quasi su base etnica, e quindi razzista – i palestinesi.
  • Un video particolarmente emblematico – fa rabbia da quanto lo è – del perché israeliani e (ancora di più) palestinesi non si parleranno mai.