Parliamo di utero in affitto

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Pensavo di essere favorevole all’utero in affitto: gli unici argomenti contro alla pratica che avevo ascoltato erano quelli che riguardavano lo “sfruttamento”. Sostantivo equivoco e che intende due cose: l’idea che una persona povera possa decidere di avere un “reddito da maternità”, e questa decisione sia influenzata da una costrizione economica. E quella che si preoccupa che, in alcuni Paesi con sistemi giuridici più labili, una donna sia fisicamente costretta a fare la madre seriale in affitto. Sono due preoccupazioni diversissime: la prima si risolve logicamente, la seconda è un’obiezione non sostanziale.

Chi parla di “costrizione economica”, ho l’impressione, non ha idea di cosa sia la povertà, o se l’è dimenticato. La povertà costringe a fare qualunque cosa, spesso cose peggiori di fare la madre in affitto, ed è sensato che a decidere quali siano le cose migliori o peggiori sia la donna stessa (e non lo Stato, per lei). Riconoscerete, è un discorso simile al medesimo argomento sulla prostituzione. Se pensate che il ricorso al reddito da maternità sia sgradevole e un effetto della povertà, fate bene a combattere contro la povertà, ma finché quella c’è, togliere un’opzione a una donna che domanda di poterne usufruire (denunciandone, in contumacia, lo sfruttamento) è non soltanto illogico, ma anche sessista.

Chi, invece, si preoccupa che in alcuni Paesi lo sfruttamento sarebbe reale, basato su costrizioni fisiche, ha buone ragioni per preoccuparsi, ma la soluzione sarebbe semplice: limitare la legalità della pratica ai Paesi nei quali si hanno sufficienti garanzie che ciò non succeda. Sia a livello giudiziario che esecutivo: potrebbe voler dire escludere Paesi anche importanti, come l’India, ma questa non è un’obiezione di principio. È una preoccupazione pratica che ha una soluzione.

SurrogaInvece, approfondendo la questione con il mio amico Pietrino Cadoni, mi sono reso conto di essere impreparato a rispondere ai suoi dubbî sulla questione, spostando la mia valutazione dal «qual è il problema?» al «forse il problema c’è». I suoi dubbî sono riconducibili a tre filoni.

1) Certo che ci deve essere la libertà di affittare il proprio utero. Ma non è un uso subottimale di risorse? È enormemente laborioso farlo: espianto, fecondazione in vitro, reimpianto, etc. Costa tempo, dolore e denaro: tantissimo. Non è uno spreco, forse?

Quanto deve contare la volontà di una coppia di avere (metà) dei proprî geni? Nei fatti, con tutti i bambini senza genitori che ci sono, non dovrebbe essere fortissimamente incentivata l’adozione piuttosto che un processo simile? E se la risposta è che il processo di adozione è troppo difficile, magari la risposta è renderlo più facile (ovviamente parto dal presupposto che anche gli omosessuali debbano avere questo diritto). Trovo completamente sensato essere prudenti nel dare dei figli a delle famiglie, ma non dimentichiamoci che la cosa che succede alla larghissima parte dei bambini è di nascere e crescere in una famiglia scelta a caso. Forse dovrebbero, semplicemente, essere (molto) alleggerite le procedure per l’adozione?

2) Certamente i bravi genitori lo sono a prescindere dall’orientamento sessuale e tutta la letteratura scientifica lo indica. Ma nei primi mesi di vita il bambino non sta meglio con la madre che l’ha avuto in grembo? Stiamo creando una situazione obiettivamente peggiore. Ripeto, libertà assoluta, ma stiamo facendo danno al bambino; e non per rispettare la volontà della madre, ma per tornaconto economico e per il desiderio di prole di una coppia. Questa magari è una fesseria, ma proprio non so rispondere.

Questo (la prima parte) è un tema sul quale, semplicemente, non sono qualificato a rispondere. Ci sono sicuramente psicologi o sociologi dell’infanzia che hanno delle risposte più precise, e che invito a intervenire. Attenzione, però: non si tratta dell’obiezione, sciocca, secondo cui a un bambino servono madre e padre, ma del fatto che nei primi mesi di vita avere la madre (o una madre) possa essere un vantaggio. Come ho detto, non so quanto ciò sia vero (tenderei a dire di sì), ma se ciò è vero, bisognerebbe incentivare moltissimo l’adozione (anche coi metodi scritti qui sopra). La seconda parte, invece, mi preoccupa meno. Una cosa che però voglio rilevare è che questa sarebbe un’obiezione anche alla fecondazione eterologa e, al contrario, non lo sarebbe alla donazione di un seme maschile a una coppia di lesbiche.

Se si può pagare l’uovo, si può pagare il seme, l’espianto, l’impianto, l’uso dell’utero, allora dobbiamo logicamente rendere oggetto di compravendita il prodotto finale. Cioè il bambino. Magari è un modo per farne nascere di più, tipo pacchetto all inclusive. Ma a quel punto dei bambini che abbiamo già, pronti, che ne facciamo? Li vendiamo?

Penso sia un buon argomento, con il solo caveat che alla domanda “ma se io sono d’accordo con questo, devo necessariamente essere d’accordo con quest’altro” si risponde logicamente con “allora sono d’accordo con entrambi”, altrimenti è una slippery slope. In quale momento l’acquisto di un essere umano diventa schiavitù? Finisce per essere una questione bioetica: quando ha coscienza? Quando ha cognizione del dolore? Quando è partorito? Ciascuna di queste riposte complica enormemente la possibilità di fare una legislazione coerente.

Insomma, non credo che queste siano opinioni conclusive, ma credo siano ottimi elementi di riflessione su un tema sul quale – sarà probabilmente evidente – avevo ragionato meno che su altri, spero che non siano utili solo a me.