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Ho scritto una guida a quello che è successo in Israele e Palestina sul Post, la ricopio qui in tutte le sue puntate. Su Limes del prossimo mese ci sarà un mio lungo articolo che racchiude tutto quello che penso su come fare la pace.
Nel dibattito su Israele e Palestina, i contributi si articolano fra grandi ricostruzioni storiche e immediata cronaca quotidiana. Questo compendio vuole essere una via di mezzo, cioè un tentativo di inquadrare quello che sta succedendo in questi giorni per chi non ha familiarità col tema. Data la vastità dell’argomento, lo dividerò in capitoli per concentrarmi su un argomento alla volta, in modo da poter raccogliere materiale, analizzare fatti e considerare l’attualità meglio che in un unico scritto-fiume.
Capitolo 1 – La strategia di Israele
Capitolo 2 – Israele e i civili
Capitolo 3 – Cosa succede ora a Gaza?
Capitolo 4 – Perché Hamas si comporta così? (e Fatah?)
Capitolo 5 – Israele e Palestina, e ora che succederà?
Capitolo 1 – La strategia di Israele
La strategia non c’è. Questa operazione militare non ha una strategia di medio o lungo periodo. È un’operazione tattica con la quale Israele vuole ridurre l’arsenale e la potenza di fuoco di Hamas a Gaza. Israele è preparata a una prosecuzione indefinita dello status quo. Questo comporta un ciclico disarmo di Hamas con mezzi militari: nei periodi di tregua, Hamas produce e acquista armi (principalmente diversi tipi di razzi) che possono mettere in pericolo Israele; con cadenza variabile, fra il biennale e il triennale, Israele interviene per riaffermare e garantire la propria superiorità militare.
Dal ritiro unilaterale da Gaza (2005), e soprattutto dalla vittoria di Hamas su Fatah nella Striscia (2007), Israele si è rassegnata a questa ciclicità. Tuttavia, le operazioni militari (“Piombo Fuso”, 2009; “Pilastro di difesa”, 2012; “Margine di protezione”, 2014 – sì, i nomi italiani non sono il massimo) non avvengono in periodi casuali. Israele fa coincidere l’inizio con un casus belli istigato dall’altro fronte – uno che possa definire l’intervento militare come operazione difensiva – consapevole che la scelleratezza di Hamas non mancherà di offrirne. Naturalmente non si tratta di eventi che portano automaticamente a una guerra (di lanci di missili ce ne sono su base quotidiana), ma di piccoli passi che innescano l’escalation di azione-ritorsione-superritorsione che porta velocemente alla guerra.
Israele adotta questa tempistica per due ragioni: primo, perché un’azione militare è molto meno digeribile per la comunità internazionale rispetto a un’azione difensiva in risposta a un attacco verso civili. È per questo che, per quanto sia sempre presente sottotraccia, Netanyahu ha evitato di collegare il rapimento dei 3 ragazzi israeliani – non rivendicato da Hamas, fra l’altro – alle operazioni militari a Gaza: rispondere a dei lanci di razzi bombardando le postazioni di lancio di quei razzi può essere considerata un’azione difensiva; rispondere a un rapimento con dei bombardamenti è a tutti gli effetti una rappresaglia.
Secondo, perché il principio sul quale è fondata la strategia difensiva israeliana è la deterrenza. È importante che i palestinesi abbiano paura delle reazioni d’Israele (e della sua forza militare), così da essere disincentivati a percorrere o sostenere la lotta armata. Il proposito di questo articolo non è la valutazione etica di questa strategia, che è stata tristemente efficace per entrambe le parti nella storia di questo conflitto. Tuttavia, è rilevante notare la vicinanza fra questo criterio e quello della “punizione collettiva” (principio che viola la Convenzione di Ginevra).
Ovviamente non c’è alcun dubbio che Israele abbia la potenza militare per spazzare via tutto l’arsenale di Hamas, ma a un costo in termini di distruzione e di vite delle persone. È perciò questo costo – più precisamente quanto Israele sia disposto a (o in condizioni di) pagarlo – che determina l’intensità dell’azione israeliana. Essendo una guerra asimmetrica, da un punto di vista militare l’unica considerazione è quella sugli effetti collaterali. Formulata in maniera brutale ma veritiera: quanti civili palestinesi è disposta a uccidere Israele per raggiungere il proprio obiettivo?
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Capitolo 2 – Israele e i civili
In mancanza di un accordo di disarmo, l’unica possibilità che Israele ha per distruggere l’arsenale di Hamas è attraverso azioni militari. Queste azioni comportano, inevitabilmente, il rischio di causare morti anche fra i civili. Nella Striscia di Gaza questo rischio è una certezza, come si è visto in questi giorni. Per questo diventa fondamentale domandarsi quanti sforzi faccia Israele per prevenire l’uccisione di civili: più precisamente, quanto è disposta a pregiudicare l’efficacia delle proprie azioni. Rispondere a questa domanda, diversamente da quello che sembra nella baraonda delle reazioni partigiane, non è facile.
Una necessaria distinzione preliminare è quella fra l’atteggiamento israeliano e quello di Hamas, cherivendica il fine di uccidere ogni civile che può. Quando ero in Palestina, ai tempi della prima guerra a Gaza, formulai così il concetto:
Ci sono tre comportamenti, nei riguardi dei civili, in guerra: il primo è quello di cercare di ridurre al minimo le vittime civili, anche a costo di fare operazioni militari meno efficaci; il secondo è quello di ignorare la quantità di vittime civili che un’operazione militare possa comportare; il terzo è quello di cercare di fare più morti civili possibile.
Israele si comporta in un modo che rientra nello spettro fra il primo e il secondo, a seconda dell’opinione che se ne ha. Hamas si comporta inequivocabilmente nel terzo modo. Israele vuole uccidere il meno possibile o se ne frega. Hamas vuole uccidere il più possibile.
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