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Sulla questione Cancellieri-Ligresti si scontrano due visioni: quella secondo la quale la giustizia viene prima dell’equità e quella secondo la quale l’equità viene prima della giustizia. I primi dicono che, per Cancellieri, fare la cosa giusta in un caso – di suoi amici, o di suoi nemici – è meglio che non farla in alcun caso. I secondi riconoscono un valore maggiore all’equità: se qualcuno non può avere il trattamento giusto, non lo dovrebbe avere nessuno.
È una discussione vista tante volte, come ad esempio nel caso delle pensioni di reversibilità per i parlamentari gay (ce l’hanno i parlamentari, non quelli gay: è giusto darla almeno ai parlamentari gay se i cittadini non ce l’hanno?), e sul principio generale non mi sembra ci siano dubbî: l’equità è un valore importante, ma viene dopo la giustizia. E un po’ di giustizia è meglio che nessuna giustizia.
[Sto naturalmente dando per scontato che si ritengano ingiuste le condizioni di carcerazione di Ligresti (e di molti altri detenuti), e che – come sembra, e non abbiamo ragione di dubitare – il Ministro non abbia fatto alcuna pressione che non gli compete: non fosse così, la discussione sarebbe completamente un’altra e credo che tutti sarebbero concordi]
Fra l’altro, il primo punto di vista è difeso da tutte le persone per bene che conosco e leggo; il secondo punto di vista, a quello che ho avuto modo di vedere, non ha dei grandi avvocati: gli argomenti vanno dall’inarticolato allo squisitamente fascista. Leggere cose come queste, con tutto l’armamentario dei “curiosamente” e dei più elementari non sequitur inquisitorî, fa schifo.
Eppure, sul caso specifico, a me rimangono delle perplessità che mi fa piacere confrontare con le opinioni di chi stimo e la pensa diversamente da me.
Una cosa molto importante nel valutare le azioni che si fanno sono le conseguenze che quelle stesse azioni hanno nel mondo: cosa insegnano, e quali limiti di accettabilità costruiscono per gli altri. Così forse sembrerà una cosa vaga, ma è invece il modo con il quale viene costruita una società. È il motivo per il quale ora buttiamo le carte per terra molto meno rispetto a vent’anni fa, e se lo facciamo abbiamo la percezione che sia una cosa sbagliata (magari lo facciamo ancora, ma se c’è qualcuno davanti, aspettiamo che abbia girato l’angolo).
Cosa insegna la telefonata di Ligresti a tutte le persone coinvolte? Ai funzionarî incaricati, ai capi della polizia, alle persone che lo vengono a sapere, agli amici e ai parenti di queste persone a cui questa storia è stata raccontata, agli amici degli amici, etc. Insegna che di fronte a un difetto del sistema, di fronte a un’ingiustizia di cui si è vittima, si cerca la via di fuga, si cerca di aggirare il sistema perché il sistema non funziona. E, intendiamoci, è vero: il sistema non funziona. Ma continuando a trovare il modo per aggirarlo, ne contribuiamo al rinforzamento.
E questo è un principio che – mi dispiace dirlo – in Italia è difficilissimo da comunicare. In tantissime circostanze mi è capitato di vedere persone, anche persone da cui non me lo sarei aspettato, anche persone fra quelle che più stimo, che considerano del tutto normale alzare il telefono per avere una via preferenziale: ripeto, non per avere qualcosa che non gli spetta, ma per ottenere ciò che i giusti canali dovrebbero garantirgli e che non riesce a ottenere attraverso i giusti canali. È una delle tante riproposizioni del fine che giustifica i mezzi.
L’Italia funziona così: per informazioni particolari. Spesso la raccomandazione non è nel truccare un concorso, ma nell’accesso al concorso stesso. C’è un bando, potrebbero accedere tutti, ma lo sanno solo gli amici di quelli che l’hanno esteso (e chi lo fa pensa: in fondo che c’è di male a segnalare a un amico che c’è un posto di lavoro?). E, in una piccola misura, lo facciamo tutti: è come è “costruito” il Paese a costringerci per andare avanti.
Nel mondo anglosassone questo è molto diverso. Non è che queste cose non succedano, ma quando qualcuno le fa, se ne vergogna (come il buttare la carta per terra), non lo racconta agli amici. E questo contribuisce a una migliore educazione delle persone che vengono dopo. Ovviamente non è una differenza genetica, è semplicemente che all’estero sono più abituati a un sistema che funziona, e quindi sono meno abituati a doverlo combattere con mezzi improprî. Ma il problema è che, nel comportarsi così, si instaura un circolo vizioso che ci fa diventare la causa dell’effetto di cui siamo vittime: essendo “costretti” (ma uno costretto non lo è mai) dal sistema a usare mezzî illegittimi, siamo la causa del rafforzamento di quel sistema.
Nel caso Cancellieri, il problema non è ovviamente nel fatto che il Ministro si sia attivato una volta che è venuta a conoscenza della situazione (non è a questa obiezione che si deve rispondere). Il problema sta nel modo in cui è venuta a conoscenza della situazione. Non è accettabile che un Ministro venga a sapere di un problema della giustizia perché chi ne è vittima le fa una telefonata, non è la giusta procedura (le procedure sono LA democrazia, in democrazia). È la stessa ragione per la quale una notizia avuta attraverso intercettazioni ottenute illegittimamente si brucia, anche se le informazioni ottenute sarebbe rilevanti per un’azione penale.
Vi racconto una cosa: durante le elezioni, un’amica che ha vissuto tanti anni all’estero, aveva bisogno di un documento per una candidatura. Per farlo, da residente all’estero, doveva rivolgersi alla sua ambasciata che poi si sarebbe rivolta al comune di residenza (etc, etc, etc). Come immaginate, come sempre con la burocrazia, una cosa molto semplice richiedeva infiniti passaggi, e infinito tempo.
Dopo essere stata per giorni e giorni a rincorrere tutti i cavilli, il funzionario, che aveva preso confidenza in tutti quegli scambi di mail e ore al telefono, si era lasciato a una domanda: «ma lei si candida con Grillo, vero?». Forse non avete colto, perciò vi traduco: non posso credere che una persona che non è sprovveduta (leggi: che non ha agganci; leggi: probabilmente grillino) si sottoponga a tutto questo ambaradan anziché fare una telefonata all’ambasciatore.
E lo stupore del, gentilissimo, funzionario era evidentemente empirico: anche dall’esperienza, non concepiva che qualcuno non volesse usare i proprî agganci, anche se li aveva. Perciò ne era evidentemente sprovvisto. E ribadisco: stiamo parlando di qualcosa che alla mia amica spettava, una cosa che in un Paese più civile avrebbe ottenuto in cinque minuti senza bisogno di alcun canale particolare.
Ed è, temo, questa la grande presa che il messaggio di Beppe Grillo ha su tante persone escluse da ogni circolo. Penso anche io che molti siano soltanto rancorosi per non essere riusciti a entrarci, in qualche circolo, e se ne facessero parte, ne approfitterebbero. Lo si legge dal riflesso condizionato che hanno nel pensare sempre male delle altre persone. Ma questo cosa importa? È anche per questo che bisogna essere diversi.