Right or wrong, un po’ di filologia

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Da quando Sarkozy e Merkel non se la son sentita di dire di avere fiducia in Berlusconi, e gli è scappato un risolino, c’è un sacco di gente in giro che dice la sciocchezza “right or wrong it’s my country”.

Ora, quella frase – se esistesse – sarebbe una sciocchezza, perché il patriottismo è sempre scemo. Però se proprio devi far riferimento a un’autorità per dare lustro a una sciocchezza, «come dicono gli anglosassoni», almeno accertati che quelli la dicano. In realtà, formulata così, la dicono solo gli italiani.

Quella frase, in inglese, non esiste, anche perché è un anacoluto ai limiti del grammaticalmente scorretto. In inglese esiste “my country, right or wrong”, senza il verbo. Che ora vi sembra la stessa cosa, ma che chi la pronunciò ne intendeva un’altra ben più condivisibile. E difatti usata così, come a dire “difendo il mio paese, che sia nel torto o nella ragione”, la dicono solo gli sciovinisti eredi di quelli che hanno inventato il nazionalismo bianco.

Una frase simile venne pronunciata duecento anni fa da Stephen Decatur, un ufficiale della marina americana. Diceva “Our country! In her intercourse with foreign nations, may she always be in the right; but our country, right or wrong”. May she always be in the right, che possa essere sempre nel giusto. Qui si suggerisce un riferimento all’espressione del celebre Edmund Burke “To make us love our country, our country ought to be lovely.” Per fare sì che noi amiamo il nostro Paese, il nostro Paese deve essere (un posto) da amare. Proprio l’opposto del senso al quale ci si riferisce oggi.

Ma l’espressione precisa “my country, right or wrong” fu pronunciata da, ed è quasi sempre attribuita a, Carl Schurz. Già leggendo la frase completa essa assume tutto un altro senso:

“My country, right or wrong.” In one sense I say so too. My country; and my country is the great American Republic. My country, right or wrong; if right, to be kept right; and if wrong, to be set right.
(“Il mio Paese, nel giusto o nello sbagliato”. In un certo senso lo penso anche io. Il mio Paese, e il mio Paese è la grande Repubblica Americana. Il mio Paese, nel giusto o nello sbagliato: se nel giusto, per mantenerlo nel giusto; se in errore, per correggerlo)

In realtà, come si vede, Schurz stava dicendo esattamente – esattamente – l’opposto. Stava invero rispondendo all’accusa di essere poco patriottico che un senatore del Wisconsin gli aveva rivolto. Difatti successivamente aveva scritto: «ho fiducia che il popolo americano [sappia riconoscere] i pericolosi egoismi che si nascondono sotto i lamenti dell’ingannevole falso patriottismo [che dice]: “our country, right or wrong!”».

La replica di Schurz è esemplare non soltanto per la parte che notiamo subito, “if wrong, to be set right”, ovvero il riconoscimento che la propria patria può effettivamente essere in errore, e che quando lo è bisogna impegnarsi a correggerla; ma anche per quella che non si nota subito, ma ha implicazioni profonde, “if right, to be kept right”, che suggerisce che anche quando consideriamo il nostro Paese nel giusto – e quindi pensiamo di esserlo noi – è importante impegnarsi per non finire nel torto, perché tutti possiamo sempre sbagliare. Essere i buoni non è mai scontato.

9 Replies to “Right or wrong, un po’ di filologia”

  1. Aggiungerei un ulteriore aspetto a commento delle parole di Schurz. Era una disputa fra americani sull’America.
    Non erano coinvolte altre nazioni, come stavolta e come tutte le altre volte che quella frase è stata citata in questi anni dai tromboni dell’orgoglio nazionale…
    Una prova in più che i buoi del ridicolo sono già da tempo fuggiti dalla stalla.

  2. Mi associo ai ringraziamenti di chi mi ha preceduto: facevo parte anch’io di coloro che avevano totalmente equivocato il senso della frase e che la dicevano attribuendola agli inglesi, quasi un loro motto.
    Ma grazie anche di avermi fatto conoscere la versione corretta di Schurz e per l’eccellente commento.
    Un appunto: io non uso il termine patriottismo (“fervido sentimento di devozione alla Patria”: Devoto-Oli) in termini positivi; in termini negativi uso invece il termine nazionalismo(“ideologia o prassi ispirata all’esaltazione del concetto di nazione”).
    Bravo!, però…non vale, hai la fortuna di avere una doppia identità (un’identità col trattino direbbe Maichael Walzer)…si ho letto la tua biografia, anzi sono curioso di leggerne gli aggiornamenti.
    Ciao!

  3. @ gianni:
    Beh, grazie a te.

    gianni scrive::

    io non uso il termine patriottismo (“fervido sentimento di devozione alla Patria”: Devoto-Oli) in termini positivi; in termini negativi uso invece il termine nazionalismo(“ideologia o prassi ispirata all’esaltazione del concetto di nazione”).

    Ehehe, allora ti rimando a questo post dove contesto che “patriottismo” possa avere, in assoluto, un’accezione positiva

    http://www.distantisaluti.com/contro-il-patriottismo/

  4. Ahi, ahi, ahi, Giovanni…ho letto e considero nella mia risposta il post che mi hai segnalato (non i commenti): ho visto però delinearsi all’orizzonte convinzioni granitiche…ma soprattutto poco articolate…invece l’area di significato patriottismo/nazionalismo contiene tensioni ineliminabili e dunque non semplificabili.
    In breve. Al netto delle strumentalizzazioni (familistiche, claniche, etniche, religiose, ideologiche, NAZIONALISTICHE) il bisogno di appartenenza è comunque un sentimento (o, se vuoi, una passione) pressoché innato (nessuno può sensatamente disconoscere che l’uomo è un animale sociale: non siamo isole nella corrente…), con forti ricadute positive individuali (senso di responsabilità civile e politica) e comunitarie (coesione sociale).
    Il sentimento patriottico, che ne è una delle espressioni, forse la più importante (perché strettamente connessa, almeno nella nostra realtà, all’idea così centrale di Stato), nasce dalla scelta (libera, a prescindere cioè dai legami di sangue, senza però necessariamente negarli) di condividere un comune destino con chi ci è vicino per lingua, cultura, tradizioni, istituzioni, storia, e quant’altro e dunque dalla disponibilità di superare il proprio ‘particolare’ per accettare i legami che questa scelta impone.
    Questo (ossia la negazione della centralità del vincolo di sangue) è il modello teorico per evitare che la vicinanza (e dunque il fatto territoriale), fondamentale per includere, diventi invece fattore di esclusione e/o di conflitto (altrimenti si cade, appunto, nel nazionalismo).
    Il modello pratico sono le istituzioni che chi condivide questo sentimento si dà in termini di concessioni di diritti a tutte le minoranze, a cominciare dalla più piccola: il singolo individuo, e di rispetto del patriottismo altrui. Per questo di parla di PATRIOTTISMO COSTITUZIONALE in antitesi con il PATRIOTTISMO NAZIONALISTICO, nel senso che la cittadinanza che ne deriva in sostanza riflette un patto piuttosto che un dato immutabile di partenza (quello che tu giustamente critichi peraltro con enfasi eccessiva: manchi di pietas…).
    In realtà tu non neghi il senso di appartenenza, ma lo allarghi a dismisura: i confini ti stanno stretti, appartieni all’umanità, ti senti cittadino del mondo.
    Ma il patriottismo (costituzionale) non è negazione del cosmopolitismo. Indica però una strada diversa dall’universalismo: si diventa cittadini del mondo attraverso un’autonoma federazione (o confederazione, non voglio aprire qui un altro fronte di discussione) dei patriottismi e non attraverso un’equiparazione omologante.
    Se sono stato magari un po’ oscuro, me ne scuso, ma non è tutta colpa mia, distinguere è sempre molto più complicato che semplificare come hai fatto tu (eh eh eh: in cauda venenum…).
    Ciao!

  5. Resta il fatto che SOLO l’Italia è Nazione da secoli divisa in sè stessa (abbiamo perfino l’Inno Nazionale che lo dichiara ufficialmente)al punto di stare con uno straniero pur di far fuori l’avverario politico conNazionale

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