Dicevamo. Su Big Picture ci sono le immagini che raccontano la differenza fra come si comporta la polizia in Canada e come si comporta in Russia.
Quello che succede in Canada fa davvero pensare a un mondo migliore.
poveri i bambini che finiscono nella squadra avversaria
Dicevamo. Su Big Picture ci sono le immagini che raccontano la differenza fra come si comporta la polizia in Canada e come si comporta in Russia.
Quello che succede in Canada fa davvero pensare a un mondo migliore.
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Mi è capitato di ascoltare questa storia. È molto bella, e l’inglese non è difficilissimo – ascoltatela:
Racconta della storia di un matrimonio fra una donna e un nigger nel Sud americano delle Jim Crow laws, quelle che vietavano a bianchi e neri di sposarsi, o imponevano a Rosa Parks di lasciare il posto a un bianco.
È una storia incredibile (c’è anche un libro), raccontata dal figlio di lei – Gene – avuto dal primo matrimonio con un bianco, simpatizzante del Ku Klux Klan, come molti in quelle zone, al tempo. La storia inizia con Gene che entra un giorno in cucina e trova la madre in lacrime: quando lui le chiede perché, la risposta è «perché l’uomo che frequento – Tuck – dice che non ci dobbiamo più vedere, per il tuo bene». E perché? Perché è un negro. Il Ku Klux Klan si riunirà di fronte alla loro casa, la madre verrà processata per quella relazione, e non vi dico il resto per non rovinarvi la storia.
La cosa che colpisce di più, in questa storia che oggi chiunque considererebbe spaventosa, è la somiglianza – l’identicità – fra le ragioni che sostenevano coloro che si opponevano al matrimonio fra bianchi e neri, e quelle che usano oggi coloro che si oppongono al matrimonio fra uomo e uomo o donna e donna. Non è un’iperbole per screditare le opinioni degli ultimi con un paragone offensivo, no: è che sono proprio le stesse.
È contro natura. È contro la volontà di Dio. È scritto così nella Bibbia. Hai mai visto un uccello rosso e uno blu accoppiarsi? Che la risposta sarebbe anche sì, esistono animali omosessuali: ma poi chissene di cosa è naturale. E poi tutta l’enfasi sui figli: su quanto non sia sano esporli a un ambiente simile, sia per vero senso di contaminazione che perché “la società non è pronta”. Sono davvero le stesse idiozie.
Ho fatto due considerazioni. Naturalmente ci sono tutte quelle che avevo fatto in questo post, di cui riporto la didascalia a questa dolce foto scattata a una manifestazione per i matrimonî omosessuali:
È una coppia, un bianco e una nera, che tengono un cartello con scritto «un tempo anche il nostro matrimonio era illegale». Io la trovo commovente, perché vuole dire “noi abbiamo avuto questo diritto, ma non saremo contenti finché non ce l’avranno anche tutti gli altri. Tutti gli altri noi”.
Ovvero che tutte le settarizzazioni, anche quelle delle cause, sono sbagliate. Non devono essere gli omosessuali a difendere gli omosessuali, non è chi subisce un’ingiustizia ad avere più titolo per combatterla (né per capirla, come ogni tanto anche le stesse vittime sbagliano a pensare), perché l’ingiustizia – la stupidità ingiusta – ha una radice così simile di pregiudizio e indisposizione a cambiare idea, lo stesso carnet di dogmatismi e argomenti che non stanno in piedi.
Le persone che oggi sono contro al matrimonio fra omosessuali (naturalmente non ne faccio una questione di nome, si chiami pure briscola) stanno dicendo esattamente la stessa cosa, e cioè che un bianco e un nero non dovrebbero potersi sposare. Tutti i tentativi di razionalizzare quel pregiudizio, di distinguerlo da quell’altro che oggi sembra non tenibile, si scontrano con il ridicolo: per esempio, un matrimonio omosessuale non garantisce figli alla società – che vuol dire che in società sovraffollate, come la Cina, il matrimonio eterosessuale dovrebbe essere vietato, e quello omosessuale l’unico permesso.
Ci pensate? È una cosa su cui non c’è davvero niente da discutere. Perché discutiamo del matrimonio omosessuale? Non c’è una sola buona ragione contraria. Forse solo sull’adozione ci sono delle motivazioni ammissibili ma sbagliate, ma anche in quel caso l’unica risposta matura non è “sono d’accordo” o “non sono d’accordo”, ma “facciamo sì che tutte le persone che lo desiderano siano sottoposte a delle (dure) prove di idoneità per il benessere del figlio”. Non sei tu a dover decidere, ma degli psicologi, degli assistenti sociali – persone che sono preparate: non è che uno va dal medico e gli dice «eh, no, dottore: io non ho l’influenza, ma la varicella».
Eppure, a oggi, il matrimonio omosessuale è celebrato solamente in Europa e America (e, come noi italiani sappiamo bene, non ovunque), mentre i due continenti più popolosi al mondo – Asia e Africa, che insieme fanno i tre quarti della popolazione mondiale – hanno un solo Stato (Sud Africa e Israele, che li riconosce ma non li celebra) che accetta questo principio elementare di umanità.
E tutto questo, al di là del tragico, è così inerentemente ridicolo: perché sappiamo benissimo che quelle stesse persone che ieri erano contro al matrimonio misto e ora non ci penserebbero nemmeno, oggi sono contro al matrimonio omosessuale e fra qualche anno – se non vinceranno quelli che “bisogna rispettare le culture” – non ci penseranno nemmeno. Chissà quale sarà la nuova frontiera di quello stesso, identico e stupido, rifiuto.
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Con la differenza che, non vivendo nello stesso posto per più d’un anno da diverso tempo, scuso i trecento salami con questa precarietà di sistemazione:
Non che il Padre non sia autosufficiente: il Padre non vuole essere autosufficiente, è diverso. Lui dell’autosufficienza se ne frega, fa solo ciò che gli interessa. Tagliare l’erba in giardino gli interessa. Lavorare gli interessa. Il gran premio di F1 gli interessa. Bere un bordeaux gli interessa. Farsi da mangiare non gli interessa. Se mia madre andasse via per un anno e io fossi in Mozambico, lui risolverebbe il problema cibo in uno dei seguenti modi: modo A, va al ristorante tutti i giorni, per un anno, pranzo e cena. Modo B, va al supermercato, prende 300 salami e 300 bottiglie di vino, pranzo e cena. Modo C, non mangia (il suo corpo è in grado di non mangiare, non bere, non dormire, non andare in bagno e insomma non essere un corpo per molto, molto tempo).
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Qualche giorno fa ho fatto un piccolo esperimento. Uno che ogni persona in buona fede può verificare con sé stesso. Si tratta del diverso atteggiamento, un iniquo doppio standard, con cui valutiamo “gli Stati Uniti” e “i Paesi mussulmani”, o l’Islam in generale.
Specie a sinistra, dove un tempo eravamo così amabilmente anticlericali, e ora ci fregiamo di comitati come “mussulmani per Pisapia” (che se era “cattolici per Pisapia”, immaginate le polemiche – dice il mio amico Jai – fra cui le mie).
L’esperimento è il seguente: avevo scritto un post che parlava di tutt’altro, e in cui c’era questo passaggio:
Alcuni di noi, fra cui il sottoscritto, non sono neppure contenti che in Italia dieci milioni di persone abbiano idee leghiste, o che negli Stati Uniti ci sia una bella fetta di popolazione che crede al creazionismo.
Questa frase non era quella che avevo scritto all’inizio, ma nessuno l’ha trovata iniqua. La prima redazione del post era più precisa, e recitava così:
Alcuni di noi, fra cui il sottoscritto, non sono neppure contenti che in Italia dieci milioni di persone abbiano idee leghiste, o che negli Stati Uniti (o in tutti i Paesi mussulmani) ci sia una bella fetta di popolazione che crede al creazionismo.
Comprensibilmente – anche senza il passaggio in corsivo – nessuno fra i diversi commentatori mi ha mosso l’obiezione di non essere stato equo: nessuno mi ha scritto “perché non ci hai scritto che anche qualunque Paese mussulmano ha una larghissima fetta, ben più grande che negli Stati Uniti, di creazionisti?”. Questo perché siamo abituati che gli Stati Uniti si possono criticare in solitaria, mentre per criticare i Paesi mussulmani bisogna sempre trovare un contraltare.
Immaginate ora cosa avreste pensato se aveste letto un periodo come questo:
Alcuni di noi, fra cui il sottoscritto, non sono neppure contenti che in Italia dieci milioni di persone abbiano idee leghiste, o che in tutti i Paesi mussulmani ci sia una bella fetta di popolazione che crede al creazionismo.
Quanti di voi, se avessi scritto un periodo del genere, avrebbero pensato o scritto «eh, ma anche in America»? Tanti, io dico tutti. Me compreso. È un riflesso condizionato, però forse vale la pena rifletterci. La stessa frase, scritta sugli Stati Uniti, è sembrata impeccabile e valida. Se l’avessi scritta sui “Paesi mussulmani” tutti, o quasi, ne avrebbero percepito la partigianeria.
Non è che siamo noi i partigiani?
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Questo qui è il post dell’anno, leggetelo tutto. Assolutamente. Obbligo. Dovere:
Se avvicinate qualche tifoso prima di un match contro un’arcirivale e gli chiedete che cosa sogna, le risposte che otterrete saranno generalmente due: c’è chi vorrà una sofferta battaglia risolta in extremis, che porti a un’esplosione di gioia e getti il nemico nello sconforto; e ci sarà invece chi spera in una dimostrazione di forza e superiorità, in una vittoria netta e insindacabile.
Incredibilmente, Germania-Italia è stata entrambe le cose.
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per il Post
Qualunque generalizzazione sull’identità dei componenti della Freedom Flotilla II è destinata a fallire: sono tanti e troppo diversi per racchiudere tutti sotto a una matrice: da giornalisti che lottano da tempo per i diritti dei palestinesi a personaggi chiaramente legati ad Hamas. Questo, anche, permette agli uni e agli altri di descrivere alternativamente come “pacifisti” o “estremisti” – quando non peggio – l’equipaggio della nave. È un gioco di propaganda che si ripete ogni volta che ci sono di mezzo Israele e Palestina, assieme alle squadre dei rispettivi ultrà.
C’è però un tipo di sintesi che si può fare, quella sugli intenti, ed è una questione su cui i membri della Flotilla hanno mentito. La Freedom Flotilla – al contrario di quello che dicono gli stessi attivisti, e di quello che riportano molti media – non è “un’iniziativa umanitaria”. Le tonnellate di aiuti umanitarî di cui sono cariche le dieci navi della Flotilla sono evidentemente un pretesto. Questo è molto facile da verificare: il governo israeliano ha, fin da subito, offerto agli attivisti la possibilità di attraccare a Ashdod – un porto israeliano una trentina di chilometri a nord della Striscia – dove scaricare gli aiuti per fare sì che questi fossero inviati a Gaza.
Un dato è perciò certo: se l’obiettivo della missione fosse stato la consegna di quegli aiuti, la risposta sarebbe stata affermativa fin da subito. Invece l’obiettivo era quello di violare il blocco militare delle acque di Gaza e per questo la Flotilla ha rifiutato l’offerta e ha provato a partire, prima di essere bloccata dalla guardia costiera greca. È probabile che, alla fine, la gran parte dei componenti della missione accetterà un compromesso simile a quello offerto dagli israeliani (i greci hanno proposto di farsi carico, assieme alle Nazioni Unite, del trasporto degli aiuti), contornato da qualche azione simbolica. Non c’è dubbio, però, che se non fosse stato per la decisione del governo greco di bloccare la prima nave della spedizione, e con essa le altre, ora saremmo a poche ore da un nuovo scontro – con chissà quali conseguenze.
C’era un modo per fare sì che quegli aiuti umanitarî arrivassero il più velocemente possibile a Gaza, e ce n’era uno che avrebbe chiaramente messo a repentaglio la possibilità che questi aiuti raggiungessero la popolazione di Gaza: la Flotilla ha scelto la seconda.
Naturalmente la scelta di preferire il tentativo di forzare il blocco rispetto alla consegna degli aiuti è del tutto legittima. È un’azione politica, per certi versi dimostrativa e per certi versi concreta. Ed è possibile che sul lungo raggio avrebbe prodotto più benefici che la consegna di quegli aiuti – io non lo credo, soprattutto per le esigue possibilità di riuscita, ma posso sbagliare e questa comunque è un’altra discussione.
La battaglia per la fine dell’occupazione a Gaza, e nel resto della Palestina, è una battaglia giusta. Ci sono molte vie per combatterla pacificamente, e le azioni simboliche sono probabilmente una di queste. Non bisogna, però, giocare sporco: caricare di aiuti umanitarî una spedizione che non ha quell’obiettivo è cercare, in maniera disonesta, di far passare mediaticamente un messaggio posticcio. Di quelli che inquinano il polarizzato dibattito su Israele e Palestina.
Il governo israeliano dice spesso che, dal ritiro del 2005, Gaza non sia sotto occupazione: è la stessa cosa, non è vero. Ma non si combatte l’ipocrisia con altra ipocrisia.
EDIT: Mi hanno fatto notare che un blocco navale non è considerabile a tutti gli effetti come un’occupazione militare. Per quanto ci siano diversi elementi per dire che Gaza è ancora occupata, è vero che un’occupazione militare senza un esercito occupante è un bel gioco linguistico.
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Quella che vedete qui sopra è la testata del primo blog che ho nel mio feedreader, quello di Francesco. È una vignetta che, come spesso capita ai Peanuts, raccoglie un nocciolo di verità. Quella di Lucy, naturalmente, è una battuta, ma è anche un concetto ben distinto che – secondo me – va tutelato in opposizione all’accordo immediato, irragionevole, che spesso concediamo alla banalità espressa da Charlie Brown. Quella di Lucy è una risposta che va a sfidare il montante luogo comune per il quale “come sarebbe noioso il mondo se tutti la pensassero allo stesso modo”.
Le persone che ripetono questa sciocchezza stanno suggerendo due cose: la prima è che la loro idea debba essere tutelata dalle critiche, in quanto ogni idea – anche la più sciocca o dannosa – contribuisce alla varietà del mondo. La seconda, direttamente conseguente da questa, è che la diversità sia un fine e non un mezzo.
Mentre l’inconsistenza del primo punto è abbastanza evidente – essere disposti a cambiare idea, a subire critiche, è la prima delle virtù – mi preme provare a disinnescare l’equivoco generato del secondo punto.
In realtà, io credo, la maggior parte di coloro che sostengono la diversità come fine – semplicemente – non ci hanno riflettuto. Nessuno è contento che esistano i neonazisti, nessuno è contento che esistano gli stupratori di bambini. Eppure quello è un bel surplus di diversità. Alcuni di noi, fra cui il sottoscritto, non sono neppure contenti che in Italia dieci milioni di persone abbiano idee leghiste, o che negli Stati Uniti ci sia una bella fetta di popolazione che crede al creazionismo. Eppure siamo, sono, del tutto contrari a vietare la professione delle idee, qualunque esse siano.
Questo perché la diversità, e la diversità delle idee, è un mezzo. Non un fine. Un mezzo per progredire, e lasciarci alle spalle idee stupide o dannose (che poi sono la stessa cosa). Siamo tutti contenti che, oggi come oggi, in pochi sostengano che la schiavitù è una bella cosa – in effetti la pensiamo tutti allo stesso modo. Siamo contenti che questo sia stato l’esito naturale di un dibattito di idee, in cui ogni idea era ammessa: ma un dibattito, appunto, in cui si è misurato il (diverso) valore di quelle idee, in cui si è cercato di limitare la varietà delle idee auspicabili. Detto in altre parole: di cercare di capire cos’è meglio per il prossimo, per il mondo.
E non c’è nessuna contraddizione nel riconoscere un valore speciale alla diversità come mezzo per progredire, ma rifiutandola come obiettivo del proprio agire: auspicando, cioè, che il maggior numero possibile di persone abbandoni alcune idee che consideriamo sbagliate. C’è una bella differenza fra il sostegno – per me assoluto – alla libertà d’espressione, e il sostegno a ogni espressione della propria libertà. Io posso difendere il tuo diritto a pensare che i negri sono inferiori, e al tempo stesso considerare questa un’idea disgustosa. La libertà di dire cose contro il pensiero comune, contro la maggioranza, merita una tutela particolare. Ma non bisogna, mai, dimenticarsi che la ragione di questo principio è una semplice: che potremmo avere torto. Non che non c’è chi ha ragione, anzi: che, proprio perché c’è, noi stessi potremmo cambiare idea di fronte a nuovi dati, nuovi ragionamenti, nuove idee.
Questo perché le idee sono cose che scegliamo con attenzione, spesso con fatica, talvolta alla fine di ragionamenti lunghi anni: non le otteniamo – o almeno non dovremmo – per caso, non le ereditiamo come l’etnia o il colore della pelle. Se abbiamo delle idee è perché le abbiamo valutate con cura, e misurate rispetto alle altre. Ed è evidente che le troviamo più persuasive rispetto a quelle. Altrimenti, semplicemente, cambieremmo idea!
Quindi sì, è bello – e sano – che un’intera gamma d’idee sia esprimibile, ma non è bello – né sano, per chi ne subisce le conseguenze – che le peggiori fra queste idee siano diffuse. È desiderabile rendere omaggio alla diversità d’idee nella ricerca di ciò ch’è giusto, ma non lo è celebrare il raggiungimento di diverse conclusioni. Perché la diversità è uno strumento, non il fine ultimo. Quello è che il mondo sia un posto migliore.