Apologie e contro

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In questi giorni ho riflettuto molto su come la gente usa l’espressione “estremismo”, e volevo scrivere un post per spiegare quanto – per certe cose – siamo tutti estremisti: contro la schiavitù, ad esempio. Il problema è, appunto, non l’estremizzare ma le idee che si estremizzano. Lo volevo chiamare “apologia dell’estremismo”.

Poi mi sono reso conto che quel titolo lì è una sorta di marchio di fabbrica, che quando ci sono cose comunemente celebrate che io invece critico, o quando ci sono cose comunemente criticate che io approvo, finisco per dargli sempre il medesimo titolo. Nel primo caso lo chiamo “contro X” e nel secondo caso lo chiamo “apologia di Y”.

Così ho pensato bene di andarli a raccogliere: per certi versi sono fra le cose migliori che ho scritto, e ci sono dentro molte delle cose che penso. Chi vuole può andarseli a leggere, senza farsi fuorviare troppo dal titolo.

  • Apologia della prostituzione
    Un vero capitalista non mette bocca su un atto di capitalismo fra due adulti consenzienti.
    Un vero socialista non mette bocca su un atto di socialismo fra due adulti consenzienti.
  • Apologia dell’invidia
    Accusare qualcuno di essere invidioso è accusarlo di volere essere, o avere, cose migliori di quello che ha. Checché ne dica Berlusconi, se non fosse per l’invidia vivremmo in un mondo peggiore.
  • Apologia dei tifosi della Lazio
    O del tifare contro. Le rivalità sono anche questo. È il suo bello. Quella volta i laziali tifarono contro la propria squadra, e fecero bene.
  • Contro la famiglia
    Il concetto santificato su cui si fonda l’aura di sacralità che cinge la famiglia è quello dell’amore a prescindere: ma siamo sicuri che sia una bella cosa?
  • Contro il patriottismo
    È scemo avere alta stima d’una cosa che c’è capitata per caso, come il codice fiscale. Le persone che dicono d’essere fiere d’essere nate in un posto direbbero lo stesso se fossero nate in un altro.
  • Contro questo femminismo
    E insomma, hanno fatto una manifestazione delle donne, e hanno detto che ne era in gioco la dignità. Non doveva essere delle donne, e non c’entrava nulla la dignità.
  • Contro lo sciopero, in genere
    Non l’ho articolato bene, ma a me questa faccenda che ogni minuscola categoria difende sé stessa – i metalmeccanici brianzoli coi capelli rossi di nome Marco – non mi va proprio giù.

Quelli che devo ancora scrivere:

  • Apologia del proselitismo
    Permettere agli altri, e viceversa, di convincerti delle loro ragioni è la cosa più bella che c’è. Qui una parte.
  • Apologia della blasfemia
    L’intenzione di offendere è scema, ma esserne offesi è ancora più scemo.
  • Apologia dell’estremismo
    È solo il nome che diamo alle idee che non ci piacciono. Io sono estremista della libertà di parola.
  • Contro il rispetto
    L’unico modo per rispettare una persona è non rispettarne le idee.

Vittorio Arrigoni era un loro nemico

Ero ancora sveglio quando si è saputo di Arrigoni e mi sono messo a scrivere.
Questo è quello che ne è venuto fuori la mattina dopo. Pubblicato ieri sul Post.

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È notte, a Gaza è ancora più notte, e ho appena ricevuto la notizia dell’assassinio di Vittorio Arrigoni. Probabilmente ci avrei litigato tutta una sera parlando di Palestina davanti a uno knafe, e sono ora qui con gli occhi gonfi. Riesco a pensare soltanto “non ci posso credere”, anche tutte le persone che conoscevo giù in Palestina scrivono o dicono la stessa cosa: “non ci posso credere”.

Inutile nasconderlo, mi sono domandato: “poteva capitare a me?”. Quando sei lì ci scherzi sempre su, è una cosa alla quale capita di pensare – insieme agli altri volontarî – ma che non prendi mai sul serio: «la Palestina è il posto più sicuro al mondo: c’è un soldato a ogni incrocio!». E poi, senza crederci per davvero: «i Territorî Occupati non sono Gaza, è lì che rapiscono la gente». E invece l’hanno rapito per davvero, e l’hanno ammazzato.

La notizia me l’ha data un’amica che ha lavorato a Gaza e ora collabora con le Nazioni Unite in Egitto. Con lei abbiamo il macabro rito di sentirci ogni volta che in quella terra maledetta succede qualche disastro: qualche notte fa mi ha chiamato in lacrime dopo aver letto dell’uccisione di Juliano Mer Khamis. La sua incredulità è stata ancora più caustica e scoraggiata: «non ci posso credere. Vittorio Arrigoni. Cioè, ma uccidete uno di noi dell’Onu semmai», mi ha detto. È il modo disperato di provare a entrare nella mente di questi farabutti, di provare a misurare la realtà con il loro metro pazzoide, per appigliarsi anche al più piccolo barlume di spiegazione razionale.

Arrigoni non era uno spirito libero. Era devoto anima e corpo – e mai così tanto il suo corpo era lì – alla sua precisa idea di lotta per la liberazione della gente in Palestina. Era la più pro-palestinese e la più anti-israeliana delle voci che si potessero ascoltare sul Medio Oriente. Non è bastato questo bagaglio di verità ideologiche, pregiudizî che non gli ho mai scusato, ad acquietare questi assassini. L’infame sorte, come era stata quella di Angelo Frammartino, di morire per mano di coloro per cui stai provando a lavorare – forse la cosa più vicina all’essere un martire, uno shahid – rende questa morte ancora più straziante e assurda.

Per questo ci sono già i soliti rintronati che gridano al complotto sionista – deve essere stato il Mossad: niente di quello che Arrigoni faceva, scriveva, diceva, poteva suggerirlo come bersaglio. Ma queste canaglie non ci odiano per quello che facciamo, scriviamo o diciamo. Ci odiano per quello che siamo. Vittorio Arrigoni corrompeva con i suoi “vizî occidentali” la gioventù mussulmana, e veniva dall’Italia, un “Paese infedele”. Non c’è niente di più simile al razzismo: l’odio nei confronti dell’altro non per quello che fa, né per quello che pensa, ma per ciò che è.

Mi è tornato in mente il racconto di un medico della Croce Rossa sulla morte di un suo collega in Afghanistan. Il medico era stato rapito da un gruppo islamista che voleva uccidere tutti gli stranieri. Una volta portato davanti al capo, però, c’era stata un’epifania: questi aveva visto lo stemma e si era ricordato che alcuni medici della Croce Rossa gli avevano salvato la vita da bambino. Purtroppo non era bastato, Dio voleva la morte di qualunque straniero, e Dio era più importante di qualunque fetta d’umanità. L’incapacità di rimanere umani, avrebbe detto Arrigoni.

In questo sordido esito di sangue c’è una sorta di comunione laica che anche coloro che non erano d’accordo con una sola parola di quelle che scriveva Arrigoni – e io non ne condividevo molte – devono riconoscere. Gli islamisti che avevano rapito Arrigoni hanno dato il loro verdetto. È un verdetto che ha a che fare con il riconoscere che il mondo non si divide in sfruttati e sfruttatori. Che c’è chi odia l’Occidente quale che siano le cose che i suoi cittadini fanno. Persone che ce l’hanno con noi, tutti, indipendentemente dalle nostre azioni. E persone che hanno detto chiaramente una cosa semplice: che Vittorio Arrigoni era un loro nemico. Noi lo sapevamo, ricordiamocelo oggi.

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Il Boston Globe Big Picture ha una bella raccolta delle ventotto migliori foto delle proteste in Yemen. Non ce n’è una in cui ci sia anche una sola donna assieme a degli uomini, o viceversa. C’è ancora tanta strada da fare.

Alla foto diciassette c’è una bambina, sulle spalle del papà, l’immagine della speranza.

I salafiti

Questa è una foto che feci in Palestina nel luglio del 2008. Anche se non si vede, quello alla loro destra è il retro della moschea di Omar, il principale luogo religioso mussulmano a Betlemme. Quella moschea era gestita da Hamas, e il muezzin urlava tutti i giorni prediche piene di sangue, di oppressione delle donne, di morte ai sionisti e ai crociati.

Per questa gente, di convinzioni salafite, erano troppo moderati. Non accettavano l’applicazione completa della shari’a (ma soltanto buone fette: come l’oppressione di donne e omosessuali). Perciò protestavano e facevano la loro preghiera al di fuori della moschea.

Come ho già scritto, c’è sempre uno più puro che ti epura.

Non ci posso credere

L’hanno ammazzato.
L’hanno ammazzato.

Non mi piaceva quello che scriveva, probabilmente ci avrei litigato tutta una sera davanti a uno knafe, e sono ora qui con gli occhi gonfi.

Questi sono cani.

E lui un martire (molto) inconsapevole nella lotta – che dico, nella guerra – all’islamismo.

 

Arrigoni e i buoni

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Vittorio Arrigoni è stato rapito a Gaza da un gruppo salafita che lo accusa di corrompere – con i suoi “vizî occidentali” – la gioventù mussulmana. In un’incredibile gara a essere il più puro – e c’è sempre uno più puro che ti epura, diceva Nenni – anche Hamas è sul banco degli imputati per eccessivo filo-occidentalismo.

In questa faccenda spaventosa, il video di Arrigoni insanguinato è agghiacciante, c’è una cosa che non si potrà dire di Arrigoni – come invece si disse delle “due Simone” o di Mastrogiacomo – è che “se la sia cercata”. Anzi, quello che è successo dovrebbe zittire una volta per tutte coloro che usano questa espressione orribile.

Arrigoni è sempre stato la voce più pregiudizialmente contraria a Israele, di predilezione dei palestinesi a senso unico. Conobbi il suo blog e le cose che scriveva nel dicembre del 2008, quando Israele attaccò Gaza: io ero a Betlemme, ben lontano dai bombardamenti, ma raccontavo un po’ le reazioni dei palestinesi a quelle vicende. Più d’una volta, nei miei mesi lì in cui tentavo di mantenere l’equilibrio, qualche lettore mi scriveva per dirmi che “non ero come Arrigoni”. Intendeva dire che criticavo gli israeliani, ma anche i palestinesi quando c’era bisogno. Arrigoni, insomma, doveva essere l’ultimo nella lista di questi farabutti.

E invece no.  Perché quella gente lì – gli islamisti – ci odia per quello che siamo, non per quello che facciamo.

È per questo che tutti, anche coloro che non condividevano una sola parola di quelle che Arrigoni scriveva, hanno il dovere di sperare che questa situazione si risolva per il meglio, come se nelle mani dei rapitori ci fosse la persona di cui più condividono ogni idea. Perché queste canaglie ce l’hanno ricordato: noi siamo i buoni.

Emidio

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Sono due mesi che aspetto che Emidio scriva un post abbastanza bello da farmelo riprendere qui, sono due mesi che ho questa foto sul desktop che aspetta. E sono due mesi che Emidio ha pubblicato il libro della sua storia, questa è la notizia.

Vera ed Emidio, questi sono proprio loro, proprio così (fotografati da Alessandro Pagni)

In più, oggi, la notizia è che è finito sul boxino morboso di Repubblica al posto delle tette di Laetitia Casta (circostanza della quale lui si rammaricherà), grazie al documentario che ha girato la brava Cristina Picchi – e se guardate i due minuti di trailer su Repubblica vi viene sicuramente voglia di vederlo.

Quindi la prima cosa da fare è comprare il libro. Dentro troverete un codice per accedere al documentario. No, non è vero (però il libro compratelo lo stesso, ché vale la pena), il documentario è alla ricerca di qualcuno che lo distribuisca – anzi, se conoscete qualcuno che conosce qualcuno che conosce qualcuno fate un fischio – e quando esce ve lo segnalerò.

Secondo me c’è una frase che potrebbe essere in calce al libro, ed è una frase che Emidio ha scritto nei commenti a un post in cui raccontava la sua storia. Era la replica a un testimone di Geova, un apologo che sfruttava la doppiezza supposta in ogni precetto religioso per cercare di buttarla in caciara – suonava più o meno così – stiracchiando quelle poche nozioni labili, al punto da negare che quello che Emidio ha subito (e sta subendo) sia la precisa emanazione dell’ideologia dei testimoni di Geova. Sono i tuoi genitori che sono dei pazzi, sottointendeva anche abbastanza chiaramente, non c’entrano con i testimoni di Geova. Dopo un lungo scambio, Emidio ha risposto la cosa più semplice e chiara – che lui c’era:

Dai, se vuoi cavillare fallo, ma non credere di potere prendere in giro me, perché io c’ero.

p.s. Una nota d’orgoglio: la prima copia di “Geova non vuole che mi sposi” è la mia.  Ho i miei santi in paradiso!

Jurij Gagarin, il nostro vero Ulisse

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Cinquant’anni fa, oggi, Jurij Gagarin fu il primo uomo a viaggiare nello spazio e orbitare intorno alla Terra.

Oramai noi siamo abituati a pensare che andare nello spazio sia una cosa possibile, ma – se ci si pensa – il confine fra il cielo e tutto quello che c’è al di là era il più grande che la mente umana potesse immaginare.

Forse il limite più inviolabile, dopo quello fra la vita e la morte, le vere Colonne d’Ercole della conoscenza umana. Una volta arrivati nello spazio, c’era poco da dubitare: la Luna era lì a un passo (anzi, un piccolo passo per un uomo, eccetera). Eppure se pensiamo allo spazio, pensiamo all’Apollo non al Vostok (già, chi se lo ricordava il nome?).

Oltre a essere un ottimo personaggio per il gioco del personaggio misterioso (indovinare il mestiere di astronauta non è facilissimo, e di lui si dimenticano tutti), la sua vita – e quella missione – sono piene di aneddoti: questi li raccontai qualche tempo fa:

Gagarin, patente e libretto

«La Terra è blu, è stupenda», Yuri Gagarin la disse veramente questa frase quando divenne il primo uomo a orbitare intorno al nostro pianeta. Quell’altra, «non vedo nessun Dio quassù», gliela mise in bocca Krusciov, poi, anche se l’effetto retorico c’era.
Quella mattina lo svegliarono e gli dissero «ehi bello, oggi vai nello spazio». Chi non vorrebbe essere svegliato da una notizia del genere? Beh, non tutti, perché le possibilità che la missione andasse in porto erano cinquanta e cinquanta, e se fosse saltato fuori croce, come dicono nei western, l’astronauta c’avrebbe lasciato le penne.
Lyndon Johnson, che sarebbe diventato presidente degli Stati Uniti di lì a poco, diceva che non bisogna mai rifiutare due cose: un invito a cena, e un’occasione per fare pipì.
Un consiglio che sarebbe servito anche a Gagarin, quella volta, perché il suo bisogno fece registrare il primo imprevisto in una missione così delicata: Gagarin si fermò, prima di raggiungere la sua capsula, per fare la pipì. Una sosta divenuta un rito, praticato ancora oggi da ciascun astronauta russo in partenza.
Così, a 27 anni, Yuri Gagarin diventò il primo uomo ad andare nello spazio, un’ora e mezzo di volo e un atterraggio non proprio previsto, in un campo, dove dovette convincere due contadini di non essere un nemico venuto dallo spazio. Ci si misero, poi, anche dei soldati, che non lo riconobbero e gli chiesero i documenti.
Alla fine ce la fece, Gagarin, ad avere il meritato tripudio, venne accoltò a Mosca come un paladino al quale furono tributati tutti gli onori, fra cui un pilota personale – Seregin – che doveva tutelare i voli dell’astronauta per garantirne l’incolumità e preservare così la vita dell’eroe nazionale.
L’ironia, o la cattiveria, della sorte raccontano che l’espediente non funzionò tanto bene perché fu proprio un volo pilotato da Seregin, sette anni più tardi, a schiantarsi al suolo mettendo fine alla vita propria e a quella di Gagarin.

Juliano Mer Khamis

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Prima di andare a lavorare in Palestina, avevo preso contatti con il Freedom Theatre, un’associazione di Jenin fondata da Juliano Mer Khamis che si occupa di costruire un futuro – attraverso il teatro, l’arte, i giochi – ai bambini palestinesi, in particolare quelli del campo profughi di Jenin. Avevo programmato di passare tre mesi a Betlemme, con Amal, e tre mesi a Jenin al Freedom Theatre, che aveva sempre bisogno di volontarî (a proposito, per chi avesse voglia di un esperienza del genere: anche se forse, ora, non è il miglior momento per contattarli). Poi mi ero trovato molto bene con Amal, mi ero affezionato al loro progetto, e avevo deciso di rimanere lì. Ero comunque andato a Jenin a vedere le loro attività.

Mer Khamis era palestinese ed ebreo – 100% palestinese e 100% ebreo, diceva lui –, figlio di madre ebrea e padre palestinese. Già prima di fondare un’attività simile era intrinsecamente una sfida al settarismo di quel conflitto. Aveva più volte espresso opinioni estremamente critiche nei confronti d’Israele e in Israele aveva fatto il servizio militare (una volta voglio scrivere un post su come, per i palestinesi, la scelta di non avvalersi del diritto – che hanno gli arabi – all’esenzione dal servizio militare sarebbe una forma di resistenza eccezionale). Per questo era visto male dalla destra israeliana e visto malissimo dagli islamisti palestinesi, che lo avevano più volte minacciato.

Lunedì l’hanno ammazzato. È stato un ex militante delle Brigate dei martiri di Al-Aqsa che ultimamente si era avvicinato ad Hamas, e che aveva passato cinque anni in carcere per aver armato varî gruppi islamisti. Al-Aqsa e Hamas si palleggiano la responsabilità cercando di derubricare l’assassinio a crimine comune. Non mi viene altro commento che la frase di Golda Meir che «la pace arriverà quando loro ameranno i proprî figli più di quanto odiano noi». Juliano Mer Khamis era entrambi, loro e noi.

EDIT – Il commento appena ricevuto in mail di uno che in Israele ha vissuto e poi è andato via: “Su Juliano Mer-Khamis cosa dire? Che non fa altro che sottolineare quanto sia difficile vivere (nel senso proprio della parola) fuori dagli schemi in Medioriente.”