Ma oggi, per me, c’è questo:
Evviva!
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È quello che hanno gridato migliaia e migliaia di persone in festa nell’est della Libia sventolando bandiere francesi, britanniche, egiziane. Bisogna ascoltare il boato alla notizia.
Festeggiano, si abbracciano, sparano in aria, perché i varî potenti del mondo – i cattivi – Cameron, Sarkozy, Obama, hanno dimostrato di tenere a loro molto di più di tanta gente che in questi giorni si è riempita la bocca di menefreghisti slogan anti-interventisti: sono fatti loro.
No, non sono fatti loro, se Gheddafi aveva minacciato oggi di fare una carneficina a Benghazi. Sono fatti nostri. Ci immischiamo perché esistiamo.
Guardatela la diretta, sono le due di notte e continuano a riversarsi nelle piazze per manifestare la propria gioia: “they’re ecstatic”, commenta Al Jazeera. Che lo sappiano, quegl’altri lì, che la gente non è con loro.
Evviva il mondo, invece!
Auguri Belladonna
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Il più grande poeta della storia del mondo – e anche di tutta quella che verrà – si chiamava Dante, ed era italiano. Una volta scrisse un verso per dire quanto fosse bella la sua donna, e lo scrisse talmente bello che nessun altro nella storia del mondo – e neanche di tutta quella che verrà – ne ha mai scritto uno così. Dice: per essemplo di lei bieltà si prova. Che vuol dire che non è Beatrice che si misura sulla bellezza, ma è la bellezza, la bellezza in quanto tale, che si guarda allo specchio e si domanda: sarò bella quanto Beatrice? E sull’esempio di lei, si prova.
L’Italia è così. Per chi non ci vive. Per gli altri, è un vecchio carcassone che non funziona e avvelena qualunque tentativo di farlo ripartire. E a dire il vero anche i più anziani si sono dimenticati se abbia mai funzionato.
Una volta – ero all’estero – entrai in un negozio molto bello, incredibilmente bello. Assomigliava a un museo. Era costruito come se fosse una foresta incantata, e tutte le cose apparivano appoggiate in maniera estrosa e disordinata. Sembrava l’avessero messe lì per l’esposizione più che per la vendita.
Stetti nel negozio un sacco di tempo, e alla fine mi decisi a comprare qualche cianfrusaglia. Arrivato alla cassa scambiai due parole con il proprietario: «di dove sei?», mi chiese. Quando gli risposi che ero italiano mi guardò come un venditore di palloni guarderebbe Roberto Baggio: «italiano? Allora ti vorrei fare una domanda», mi disse. Era quasi deferente, come si parla con un esperto. «Dimmi, ti piace il mio negozio?».
Gli risposi quello che pensavo: mi piaceva eccome quel negozio, era proprio bello. E si vedeva quanto ci tenesse, per come l’aveva fatto. Allora lui mi rivelò la chiave: «questo mi fa enormemente piacere – mi disse – ed è il complimento più bello che un italiano potesse farmi. Perché io ho provato a fare questo negozio come voi italiani fate qualunque cosa: prima, che fosse bello; e poi, forse, che funzionasse».
L’Italia. Questa è la cosa migliore, e la peggiore, che mi sia venuta in mente per i suoi centocinquant’anni. Auguri.
Ah, la Belladonna è una pianta velenosa.
Centrali nucleari for dummies
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Se avete paura di quello che sta succedendo alla centrale nucleare di Fukushima, ma non ne capite molto, il link da seguire è questo. Se non avete paura di quello che sta succedendo alla centrale nucleare di Fukushima, ma non ne capite molto, il link da seguire è questo. Se ne capite un po’, ma ne vorreste capire di più per farvi le idee più chiare, il link è questo. Se ne capite tutto, e lo sapete spiegare per bene a chi non ne capisce nulla vi chiamate Amedeo Balbi, e l’avete scritto voi.
I meno meno meno peggio
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Il governo israeliano ha deciso di pubblicare le foto di alcuni coloni uccisi a coltellate qualche notte fa. Lì dentro c’è quella che è oramai l’unica dinamica di quel conflitto: l’essere i meno peggio.
Israele sopravvive e basa la propria credibilità sull’essere il meno peggio. Ogni volta che viene indicata un’ingiustizia ai danni della gente in Palestina, la risposta è: «ma loro fanno quest’altro». Un israeliano – con delle ragioni – potrebbe sfidarvi a trovare una violazione della libertà d’opinione, dei diritti delle donne, dell’intangibilità delle persone, del buon senso, praticata dagli israeliani ma non dai palestinesi, se non per mancanza di forza o potere.
Chi equipara, ad esempio, la guerra a Gaza agli attentati suicidi usa una tattica drammaticamente perdente: Israele avrebbe il potere militare per sterminare tutti i palestinesi, ma non lo fa. Hamas, non ha quel potere, ma prova a farlo – al massimo delle proprie forze. Si può essere contrari a quella guerra, e a tutte le ingiustizie commesse da Israele, senza tirare in ballo questo confronto perdente. Anche perché quel confronto è il flagello di Israele e Palestina.
Specchiarsi solamente nei proprî nemici è, assieme, l’anticorpo alle critiche e il morbo della società israeliana. Una società che, da quarant’anni, ha deciso di farsi forza d’occupazione, di non puntare più a essere i buoni – come nei sogni dei loro fondatori – ma a essere i meno peggio. Un circolo vizioso che gli permette di fare un passo verso il baratro quando lo fa anche il nemico. Dei nemici alleati in questa coazione a ripetere, anzi a peggiorare.
Quando Haaretz ha chiesto al ministro Edelstein perché avessero preso questa decisione, questi non ha cercato in nessun modo di spiegare perché fosse una decisione giusta, ha detto – testuale – «perché lo fanno anche loro». Hamas e Fatah hanno sempre pubblicato le foto dei civili morti per causa diretta o indiretta delle azioni israeliane. Perciò ha deciso di farlo anche Israele. Il concetto è sempre lo stesso: dobbiamo mostrare quelle foto, dobbiamo far vedere che loro sono peggio di noi – che noi siamo i meno peggio.
L’intervistatore ha individuato la contraddizione: «ma, allora, siamo come loro?», ha chiesto. Indovinate qual è stata la risposta? Ancora una volta non è stata: “ci siamo comportati bene”, ma «c’è ancora una grande differenza». Fatah e Hamas pubblicano foto più crude, talvolta fasulle, talvolta ritoccate. Qualche volta quelle foto sono state prese prima di prestare soccorso alla persona, molte altre senza chiedere il permesso a nessun familiare, etc. Tutte cose vere, figuriamoci.
Ma è come rispondere: non siamo come quelli che critichiamo, ma cerchiamo di assomigliargli sempre di più.
Firmato, Barack Obama
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Il mio amico Fabio è appena diventato americano e ha ricevuto una lettera da Barack Obama che – come mi ha scritto lui – “dimmi tu se un sudamericano disperato là (come lo è qua) o un italiano spaesato non si deve commuovere a certe parole che il suo Presidente gli rivolge, per la prima volta”.
Per certi versi è una lettera piena di retorica, che si tiene soltanto di poco al di qua della menzogna. Ha ragione lui a specificare che – molto probabilmente – quel sudamericano sarà disperato là come lo era a casa. Ma è anche vero che l’America è l’unico posto dove può provare a smettere di esserlo, ricostruendo la propria vita, in libertà, e ricercare la propria felicità. È una bugia bella, che fa male a essere una bugia, ma fa bene a essere bella.
Quella bugia lì, che è americano chiunque creda nella libertà. Non i genitori, non la terra. Non il sangue, ma la testa. È ciò che rende così strana la loro idea di patria. Naturalmente, è una bugia. Bisogna sputare sangue per essere americani. E spesso non basta. Ma le idee contano, e plasmano le persone: è solo così che si può passare – nello spazio fulmineo di un paio di generazioni – dalla segregazione razziale a eleggere un nero presidente. Change non era solo un motto, ma la sua storia. Quello spirito che, scriveva l’Economist, fa domandare agli americani «perché no?» quando gli altri domandano «perché?».
Questo, come direbbe Obama, è il true genius of America, ed è una cosa che tante persone di sinistra non hanno mai capito (ma tante altre, come me e Fabio, sì). Quella cosa del sentirsi i Buoni, così vilipesa quanto poco indagata. Tutte le persone per bene, per fortuna, si sentono buone – e soprattutto cercano di esserlo: quando non lo sono, cercano di cambiare idea o comportamento. Ed è quella seconda parte, del cercare di esserlo, che rende una lettera come questa un impegno – anzi, esempio e ispirazione – per essere migliori di quello che si è, e molto migliori di quello che si è stati.
Quanto sarebbe inimmaginabile, forse anche ridicolo, un presidente del consiglio italiano che scriva queste cose (traduzione mia)?
Caro Concittadino Americano,
Sono onorato di potermi congratulare con te per essere diventato un cittadino degli Stati Uniti d’America. Tu rappresenti la promessa del Sogno Americano, e grazie alla tua determinazione, questo grande Paese è adesso il tuo Paese.
Hai fatto un giuramento solenne in nome di questo paese, e ora ne condividi i privilegi e le responsabilità. I nostri principî e le nostre libertà democratiche sono tue, così che tu possa sostenerle attraverso una partecipazione attiva e impegnata. Voglio incoraggiarti a prendere parte alla tua comunità e a promuovere i valori che ci guidano, come americani: l’impegno e l’onestà, il coraggio e il fair play, la tolleranza e la curiosità, la lealtà e il patriottismo.
Dalla nostra fondazione, generazioni di immigranti hanno raggiunto questo paese pieni di speranza per un futuro migliore, e hanno fatto sacrifici per poter tramandare questa eredità ai loro figli e ai loro nipoti. Questo è il prezzo, e la promessa, di essere un cittadino. Ora sei parte di questa preziosa storia, e servi da esempio e ispirazione per coloro che verranno dopo di te.
Ti accogliamo come nuovo cittadino di questa terra, e ti diamo il benvenuto nella famiglia americana.
firmato: Barack Obama
Per i cultori, l’originale piddieffato.
Abbiamo vinto noi, ma abbiamo deciso di perdere
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If you are neutral in situations of injustice, you have chosen the side of the oppressor.
Desmond Tutu
Quando due primi ministri di destra, Cameron e Sarkozy, dicono queste cose vuol dire proprio che abbiamo vinto noi. Che l’aiuto agli ultimi e la necessità di oltrepassare il principio storico del conservatorismo – la sovranità – hanno fatto breccia in quelli che cinquant’anni fa sarebbero stati i nostri nemici. I nostri “noi” di qualche tempo fa si congratulerebbero con noi per aver vinto questa grande battaglia di idee.
Ho paura, però, che i nostri “noi” di oggi, invece, faranno tutt’altro. Come in quell’equivoca citazione di Brecht, che mi è sempre sembrata un gioco linguistico, si siederanno al tavolo del torto, perché quello della ragione – che avevano occupato per tanti anni senza successo – è divenuto quello di tutti.
Non so se per narcisismo e necessità d’essere alternativi, o per aver maturato odio per i nostri nemici anziché per le loro sciagurate idee, ma la gente di sinistra che fa tutto il giro del tavolo e inizia a parlare del rispetto della sovranità di un altro Stato, di fronte a questo massacro quotidiano, ha deciso di diventare quello che un tempo avrebbe combattuto e schifato.
È come se, dopo aver vinto la battaglia – anche ideale – contro la segregazione razziale, Rosa Parks avesse pensato: «se i bianchi sono d’accordo con me, significa che ho torto: forse la segregazione era meglio».
A eccezione di tutte le altre
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Ma quanto scrive bene Christopher Hitchens.
Su Vanity Fair ha scritto un racconto di tutte le rivoluzioni che l’ultimo quarto del XX secolo ha visto – di molte di queste è stato spettatore –, spiegando anche perché le rivoluzioni nei Paesi arabi di queste ultime settimane non rassomigliano a nessuna di queste, né alle migliori – le più riuscite – né alle peggiori, quelle abortite.
Per farvi venire voglia di andare a leggere tutto l’articolo ho tradotto questa piccola parte:
Forse, il singolo evento più emozionante della storia sudafricana fu il momento – esteticamente perfetto – nel febbraio del 1985, quando i carcerieri di Nelson Mandela andarono da lui e gli dissero che era libero di andare. E lui altezzosamente rifiutò! Sarebbe uscito di prigione quando fosse stato pronto, e quando l’intero Paese fosse stato liberato, non un momento prima. In quell’istante, gli idioti che l’avevano rinchiuso diventarono lentamente consapevoli ch’egli era già il presidente della repubblica a venire.
Attento, hai calpestato una mina!
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Le campagne di sensibilizzazione sono una cosa che suona vecchia e noiosa fin dal nome, eppure sono importanti. Perciò si è sempre a caccia di idee diverse che catturino l’attenzione. La nuova, bella e azzeccata, trovata dell’Unicef è questa. Un adesivo circolare: da un lato è adesivo e si mimetizza con il terreno, dall’altro c’è disegnata una mina con una scritta.
Le persone ci passano sopra, e si ritrovano l’adesivo attaccato alle suole, senza essersi resi conto di averlo calpestato. Il messaggio è più o meno: «attento, se tu avessi fatto questa camminata in alcuni Paesi del mondo – probabilmente – avresti perso una gamba».
EDIT: mi segnalano che la campagna è di più di un anno fa!
Grazie a Ilaria
Insegnanti che ne hanno da insegnare
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La sintesi dell’Italia degli ultimi vent’anni.
Qualche giorno fa Berlusconi ha detto che gli insegnanti italiani – invece di insegnare la letteratura, la storia, la matematica – propagandano agli studenti idee di sinistra. Alcuni insegnanti italiani, per tutta risposta, hanno deciso – invece di insegnare la letteratura, la storia, la matematica – di manifestare in classe contro quello che ha detto Berlusconi.
E poi ci sono quelli che non l’hanno fatto:
Proprio perché non sono come lui pretende che io sia, lunedì sono entrato in classe e ho parlato di storia e di letteratura; con più vigore di prima, se mi riusciva. E senza mai accennare nemmeno una volta alle parole di Silvio Berlusconi sulla scuola pubblica. E così ho fatto anche martedì e poi giovedì e poi tutti gli altri giorni, fino a oggi. Senza striscioni e senza cartelloni e senza minuti di silenzio: parlando di quello di cui devo parlare.
Per la semplice ragione che io non sono come Silvio Berlusconi crede e pretende che io sia. E voglio che i miei ragazzi lo sappiano.