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Dicono che io non sono uno che fa post del genere. Boh, non è che sappia molto che dire della crisi: diciamo che il mio parere elaborato è che è tutta colpa mia.
Ecco, solo per smentire chi mi vuole bene.
poveri i bambini che finiscono nella squadra avversaria
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per il Post
Corso di Alfabetizzazione Sentimentale Obbligatoria – Prof. du Lac – 4° lezione
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Eccoci di nuovo qui cari allievi,
il quesito della scorsa settimana ha dato àdito a risposte combattute, succulente e davvero polarizzate: c’è chi dice che bisogni – certamente – accettare i difetti dell’amato e chi dice, assolutamente, di no.
Facciamo chiarezza su quello che – in realtà – è solo un vezzo linguistico: “io amo i difetti del mio amato”. È l’errore in cui incorrono Anton Ioni e Federica trascurando l’elementare considerazione che gli individui hanno preferenze peculiari: se ciò che fa una persona ci piace, quello più che un difetto è una qualità. Dire che si ama qualcuno per i suoi difetti è una sciocchezza: per noi quella caratteristica è un pregio, checché ne dica il resto del mondo.
Esemplare, in questo senso, il compito di Gabriele:
NO, i difetti non si devono accettare: si devono affrontare. E vorrei però precisare che, secondo me, i difetti sono soggettivi e non oggettivi: io non considero un difetto l’essere disordinati, per mia madre è uno dei peggior difetti. Voler migliorare credo che sia la vera essenza dell’amore. Sia verso un’altra persona che verso se stessi.
Che ci permette di passare ad affrontare il punto centrale del CASO di oggi assieme a Saverio (posta):
In effetti credo che faccia parte delle “scienze sentimentali” l’idea per cui si possano comunicare dei “valori”, nella speranza che possano migliorare i nostri partner (e viceversa: se la mia compagna non mi migliora, che compagna è?). Insomma, la bellezza di un rapporto è anche quella di crescere assieme.
In questo senso un “+” va ad Alberto V (posta), Ally, Luca, Angelo, Marco, Franco, Potacchione (posta) e Lucia. Devo però una menzione speciale all’eccezionale, anche se un po’ arzigogolata, prova di Filippo: ne ho viste poche, di così buone, in decenni d’insegnamento.
Accettare qualcosa che non ci piace in una persona significa degradarla. Significa pensare che chi amiamo non abbia la capacità o la voglia di modificare un suo difetto. Significa condannarsi all’idea che un’altra persona – simile, ma priva di quel difetto – potrebbe presto prenderne il posto.
A.D. È così: se la coincidensa perfetta – almeno in partensa – è quantomeno implausibile, è vero che ci sono due possibili strade per fronteggiare tale imperfessione: si può decidere di cambiare gli uni per gli altri o di sottomettersi all’idea di piacere a metà. Si può scegliere d’impegnarsi a evolvere, o costringere chi ci sta accanto a tollerare ciò che non ama. È del tutto ovvio quale, fra queste due strade, sia quella dell’innamorato.
Non ci innamoriamo di mille persone alla volta, ma di una sola: è quella che ci può dare i migliori consigli e che ci sa insegnare le cose più giuste. Se non pensassimo questo di lei, come ce ne potremmo innamorare? E così viceversa: scelgo chi è già un bel terreno e ha la giusta disposissione per coltivarlo. È per questo che non potrei “accettare” i difetti della persona che amo: non potrei mai accettare di rinunciare a una parte di lui, di darlo per perduto.
È proprio così, Dora. Chi dice che le persone non cambiano fa un errore lordo: misura gli altri col proprio metro inane e stantìo; se non si è in grado o – più sinceramente – non si è disposti a migliorarsi, è abusivo estendere la stessa misura agli altri. È probabile che ci siano persone ottuse e affezionate ai lati peggiori di loro stessi, ma non è fra queste che vogliamo scegliere il nostro amato.
Perfettamente speculare a questo è ciò che, in proprio, va fatto: non bisogna accettarsi, non bisogna “essere sé stessi”, bisogna costantemente cercare di essere un’altra persona, un “io” – un po’ – migliore del giorno prima. E l’unico modo per fare questa operazione è scegliere una persona che ci sia alleata, una persona con cui – dandole il braccio – salire milioni di scale.
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A.D. Questa settimana, nei compiti a casa, facciamo il primo passo dalla teoria all’applicassione pratica:
Valentino/a vi lascia, dopo diverso tempo assieme, dicendovi che si è reso/a conto che non gli/le piacete. Quali sono i vostri pensieri? Come agite?
Inviate le vostre risposte qui sotto oppure nella posta del Prof. Discuteremo le risposte martedì prossimo.
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In questo momento il nuovo Primo Ministro britannico, David Cameron, starà scrivendo – di proprio pugno – quattro lettere dal contenuto particolare, e assolutamente top secret. In queste missive ci sarà scritto qualcosa come “nel caso il Regno Unito sia distrutto da un attacco nucleare, esplodete le vostre testate e radete al suolo il nostro nemico” Firmato: David Cameron.
Proprio così: ogni primo ministro che prende ufficio in Gran Bretagna diventa il responsabile ultimo dell’uso dell’arsenale nucleare – il Programma Trident – e ha l’ultima parola in caso di qualunque tipo di attacco da dover effettuare. È, però, lo stesso Primo Ministro ad avere questo incarico, anche quando sia morto, ed è per questo che Cameron dovrà scrivere le sue ultime volontà indirizzate ai quattro comandanti dei sottomarini nucleari britannici nel caso che un attacco nucleare faccia fuori anche lui.
In ciascuno di questi sottomarini – poi – c’è una sicura, e all’interno di quella sicura c’è un’altra sicura, e all’interno di questa sicura c’è la lettera del Primo Ministro da aprire solo nel caso che il governo sia stato spazzato via da un attacco nucleare. Oramai è tutto perduto, il Regno Unito non esiste più, vendicarsi o non vendicarsi? Causare la morte di milioni di persone inutilmente, oppure rinunciare completamente all’uso di quelle testate perché oramai la Madre Patria è stata cancellata?
Per la stessa ragione, appena dopo, bruceranno le lettere con gli ordini di Brown: al termine dell’incarico di ciascun inquilino di Downing Street, quello strano testamento viene distrutto. Così non sapremo mai neanche quali siano stati gli ordini di Blair, Major o Tatcher, sebbene nessuno di questi sembri particolarmente disponibile alla conciliazione con una forza nucleare nemica che ha appena ucciso 60 milioni di concittadini, scrivente compreso. Si dice che proprio John Major considerasse la scrittura di queste lettere un compito così importante, da riservarsi un intero week-end per dare inchiostro ai proprî pensieri.
Di speculazioni sul contenuto delle lettere ce ne sono molte: gli storici ipotizzano che durante la guerra fredda contenessero i seguenti quattro ordini:
- Mettetevi agli ordini degli Stati Uniti d’America, se ancora esistono.
- Andate in Australia, se c’è ancora.
- Lanciate i vostri missili per distruggere il nemico contro il quale siamo in guerra.
- E, in ultima istanza, usate il vostro giudizio personale.
Come tutte le questioni di fantapolitica, le procedure in caso di attacco nucleare appassionano sempre se le si affronta in maniera solamente speculativa, senza focalizzarsi sull’oggetto concreto della propria speculazione: come nel caso del Designated Survivor, il membro del governo USA che viene portato in una località segreta a ogni evento a cui sia presente tutto il governo – compresi Presidente e Vice-Presidente – per garantire la linea di successione presidenziale in caso di evento catastrofico che faccia fuori tutti gli altri membri.
Ma qui c’è di più della speculazione e l’amore per il nozionismo: c’è una questione filosofica – o quantomeno di filosofia politica – molto interessante che ricorda la Teoria del Pazzo di Nixon. L’utilità dichiarata del possedere un arsenale nucleare è quella della deterrenza, ma se un attacco c’è già stato la deterrenza – semplicemente – non può più esistere. Mettiamoci nei panni del comandante di uno si questi sottomarini: il proprio Paese è stato annientato, compreso tutto il governo e tutta la sua famiglia, non c’è più nessuno a cui fare riferimento, lanciare l’attacco sarebbe del tutto inutile, nonostante questo voglia dire che il genocidio di 60 milioni di persone – o più – rimarrebbe impunito. Si può parlare di senso di giustizia, in questa direzione? No di certo.
E quindi noi vogliamo sperare che nelle lettere che si sono avvicendate, scritte dai varî primi ministri non ci fosse mai scritto “vendicatevi!”. Eppure, quando pensiamo al nemico che potrebbe distruggerci con le sue testate nucleari, e che non lo fa per paura della vendetta, beh, pensiamo sia meglio che il nemico creda che – in realtà – il nostro Paese sia disposto a usarle. Altrimenti a cosa servirebbe il concetto stesso di deterrenza?
Così c’è questa contraddizione, forse solo apparente, in cui noi vogliamo sperare – per noi – che chi ci guida non voglia essere responsabile di un genocidio, ma vogliamo che gli altri immaginino, eccome, che questi sarebbe pienamente in grado di esserlo.
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Gli hacker islamisti mi mancavano. Lars Vilks è un artista svedese che, per una mostra, ha disegnato una vignetta su Maometto – non molto divertente a dire il vero – e per questo ha ricevuto ripetute minacce di morte. In Irlanda sono state arrestate 7 persone che stavano mettendo a punto un piano per ucciderlo. Alle conferenze stampa gli succedono cose come queste (ascoltate l’esagitata che continua a gridare Allahu Akbar), e ora ci si sono messi pure gli Hacker filoislamici a scrivere slogan religiosi insulti e minacce oscurando il suo sito:
Ciò che stupisce sempre me è come queste persone siano così cretine da non rendersi conto di un concetto così elementare, che lo capirebbe anche un bambino: così facendo stanno implicitamente ridicolizzando le loro stesse idee religiose, dimostrando che quella religione è un ammasso di fandonie – se Dio volesse uccidere quelle persone sarebbe in grado di farlo da solo, no?
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L’eufemismo classico quando si parla della pedofilia all’interno della Chiesa Cattolica è quella di “molestie su minori”, un eufemismo dettato – credo – dalla ricerca di scacciare quello spauracchio fin dalle parole, di allontanare l’orrore di parole e concetti più precisi, come è comprensibilmente il tentativo di ognuno. Questo post è, esattamente, il tentativo opposto: quello di rendere chiara tutta la sordida efferatezza di quei gesti, l’oscenità ubriaca di questo decennale ciclo di abusi ancora largamente impunito, il raccapriccio che ciascuna persona umana deve percepire fino a dentro le ossa per ciò che è successo sotto ai nostri occhi.
Se volete smettere di leggere, potete farlo qui qui.
Ciò di cui parliamo sono stupri di bambini, violenze sessuali, uomini di settant’anni che penetrano a turno il sedere di bambini di 6 o 7 anni con la minaccia delle botte, e dell’Inferno, per coloro che raccontassero ciò che viene fatto loro. Parliamo di genitori che affidavano i figli a delle istituzioni che dovrebbero impartire loro un’educazione, per ritrovarli sodomizzati a turno dagli stessi individui che dovevano essere i loro educatori. Parliamo di urla quotidiane udite da alcune stanze, e di bambini con l’ano tumefatto, dalle violenze sessuali di gruppo dei Don Stupratori. Parliamo di una sorte ancora peggiore per i poveri orfani – già privati dalla vita dei loro genitori – bersaglio primo, e più indifeso, dei violentatori in tonaca. Parliamo di coercizione a forza di cinghiate, fino a far sanguinare, perché gli orfani di genitori non ne hanno, e non possono spifferare le malefatte. Parliamo di minacce di ogni tipo, e in ogni sede, perché ciò che succedeva ogni giorno non venisse fuori. Parliamo della connivenza della Chiesa in tutti i gradi, dal più alto al più basso, con l’obiettivo – unico e superiore a qualunque senso di giustizia – di mettere a tacere queste voci. Parliamo di monaci specializzati nel sopire lo scandalo, nell’occultarlo e riporre gli stupri sotto al tappeto, inviati da una diocesi all’altra per fare questo mestiere indegno.
E per fortuna parliamo anche di alcune di queste persone che, dopo anni di vergogna, decidono di passare dall’altra parte: di denunciare tutto e allearsi con i buoni, quelli che in tribunale e in ogni sede possibile cercano di combattere questo fenomeno disgustoso. Una bella storia di un “fixer agent”, un occultatore di professione nella Chiesa, la potete ascoltare qui: sono i primi 20 minuti di racconto (in inglese) in cui, diocesi dopo diocesi, il faccendiere inizia a familiarizzare con le proprie vittime, a rendersi conto dell’immondo compito che gli è stato assegnato, e si licenzia. Per poi cominciare la battaglia sul fronte opposto.
Si tratta, per la sola Irlanda – l’unico Paese dove è stata istituita una commissione d’inchiesta specificatamente mirata a tutti i casi del genere occorsi sul suolo nazionale – di un report di duemilaseicento pagine, per un Paese che ha un quindicesimo degli abitanti italiani.
Un report di cui traduco – sempre con lo stesso fine – gli estratti qui citati:
7.129 In relazione a una scuola, quattro testimoni hanno dettagliato delle accuse di abusi sessuali compresi stupri in tutte le forme, da parte di due Fratelli e in un caso assieme ad una altro ospite più grande. Un testimone della seconda scuola, dalla quale vi erano molte segnalazioni, ha descritto lo stupro subito da parte di tre Fratelli: «Sono stato portato nell’infermeria… mi hanno tenuto fermo sopra al letto, sono stati degli animali… Mi hanno penetrato, sanguinavo». Un altro testimone ha riportato di essere stato violentato due volte a settimana, in giorni specifici, da parte di due Fratelli nei bagni del dormitorio: «Un Fratello guardava mentre gli altri abusavano sessualmente di me… poi si davano il cambio. Ciascuna volta finiva con violente legnate. Quando ho parlato di quello che succedeva in Confessione, il prete mi ha chiamato bugiardo. Non ne ho più parlato con nessuno».
«Io dovevo andare nella sua (di un altro frate) stanza tutte le volte che voleva. Ti malmenavano se non lo facevi, e mi faceva… mi costringeva a masturbarlo. Una notte non l’ho masturbato e c’era un altro Fratello lì che mi ha tenuto fermo mentre mi colpivano con una mazza, e mi spaccavano le dita (mostra la cicatrice).»
7.232 Testimoni hanno riportato il loro terrore, durante la notte, quando udivano le urla degli altri residenti che provenivano dai bagni, dai dormitorî, o dalle camere da letto del personale, mentre venivano violentati. I testimoni erano consapevoli che i loro colleghi che descrivevano come orfani se la passavano davvero male:
«I bambini orfani, se la vedevano brutta. Sapevo chi fossero, dalla loro dimensione, venivano dalla (stessa) istituzione. Erano lì da una giovanissima età. Si udivano le loro urla dalle stanza dove Fra X li stava violentando.»
«Ci fu una notte, non ero lì dentro e vidi uno dei Fratelli sul letto con uno dei bambini più giovani… e sentii il ragazzetto urlare e piangere, e Fra Y mi disse “se non ti fai i fatti tuoi, ti spetterà lo stesso”. .. Sentivi le urla dei bambini e sapevi che venivano violentati, e quello era l’incubo nella testa di tutti. Era ciò che tutti cercavano di evitare… non doveva succedere a me… ricordo un bambino che perdeva sangue dal sedere e mi dissi misi in mente che quella cosa lì (lo stupro anale) non doveva succedere anche a me. Questo era tutto ciò a cui penavo».
Se Dio esiste, dovrà chiedere loro perdono.
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Immaginate una società – non così lontana da noi, come dimostra Giovanni Verga – in cui le persone con i capelli rossi (rosci, a Roma) siano considerate maligne, in qualche modo diaboliche e contrarie al naturale corso della specie che ci vuole tutti castani, neri – o al massimo biondi. Pensate che queste persone, considerate un virus per la società, siano perseguitate dalla società, torturate, uccise.
Immaginate che a causa di queste persecuzioni i rosci comincino a nascondersi, e per sfuggirvi tentino di occultare il vero colore dei proprî capelli nelle maniere più disparate, tingendosi, rapandosi a zero, usando una parrucca: tanto che alcuni finiscano per convincersi di essere nati con i capelli neri.
Immaginate che, dopo diversi anni, si affermi un movimento di rosci e non, che rivendichi gli stessi diritti anche per i rosci rispetto a tutte le altre capigliature: a chi ha i capelli rossi vengono ancora negati alcuni diritti fra i più elementari, come quello di sposarsi o avere dei bambini – lo so, lo so, che ora avete capito, ma seguitemi – e che le persone comuni, per fare un esempio, siano spaventate all’idea che nasca loro un figlio roscio: sarebbe una sciagura!
Immaginate, ora, che piano piano i pregiudizî nei confronti dei rosci si vadano erodendo anche grazie alla scoperta di alcune figure simboliche che riconoscano di essere rosce, si tolgano la parrucca, e comincino a dimostrare che – per tutti gli altri – il loro colore di capelli non cambia niente. Pensate a quanto è potente, per le persone comuni, il rendersi conto che quella persona, roscia, è la stessa che prima stimavano.
Cosa pensereste se una di queste persone in vista, coi capelli rossi, volesse continuare a tenere in testa la sua parrucca marrone? Non pensereste che, in una piccola misura, sbaglia perché asseconda il pregiudizio altrui? Non pensereste che, in qualche modo, la sua neutralità, il suo non volere permettere che questa battaglia passi fin dentro alle sue fibre, siano un piccolo danno per la causa di tutti quelli che hanno i capelli rossi?
Per questo ha ragione Ivan, e ha ragione Sullivan. Certo che Kagan ha diritto alla propria riservatezza, ma l’etica è esattamente rinunciare a qualcosa che ci spetta, per aiutare qualcun altro. È un comportamento etico rinunciare a un week-end al mare per dare quei soldi in beneficenza, è etico assistere un anziano che sta attraversando la strada anche se ci fa perdere del tempo. Per quanto in entrambi i casi sia perfettamente legittimo fare il contrario.
Certo, nessuno sta parlando di puntarle un coltello alla gola per farla confessare: ognuno è padrone delle proprie decisioni. Ma gli altri sono padroni delle proprie opinioni su quelle decisioni, ed è legittimo e auspicabile sperare in una decisione – più giusta – rispetto a un’altra. E si può pensare che, se decidesse di non essere prigioniera dei pregiudizî altrui, sarebbe una persona migliore.
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Certo, è come una mandria di buoi che dànno del cornuto a un asino, ma la lettera con cui Sandro Bondi risponde a un articolo da buco della serratura su di lui e la sua compagna dice delle cose vere, e le dice bene.
E siccome qui si cerca di non essere né buoi né asini, se ne possono condividere alcuni passaggi:
L’amarezza e lo stupore scaturiscono soprattutto dal modo in cui certi giornali e certi giornalisti svolgono la propria professione. Si prende la penna, non per raccontare la realtà, ma con l’obiettivo prefissato di distruggere l’immagine di una persona, con lo scopo di fare proprio del male alle persone che vengono messe nel mirino. Non importa se la raffigurazione che si offre sia falsa, che le notizie siano inventate di sana pianta. L’importante è suscitare la riprovazione dei lettori, addirittura la ripulsa verso tanto presunto schifo.
Ma c’è ancor di peggio in questo modo di esercitare la professione di giornalista: c’è l’idea che nella vita non vi sia nulla di buono, di bello e di puro. C’è l’idea che tutto sia malvagio e corrotto.
Ho qualche dubbio che Bondi estenderebbe la descrizione al capostipite di questi, Alfonso Signorini, acclaratamente al servizio di Silvio Berlusconi, ma quell’atteggiamento insulso per cui si dà per scontata la malvagità e la corruzione altrui, la necessità di un doppio fine, è la vera dimostrazione di una società piccola piccola che non si limita a esserlo, ma misura gli altri con il proprio poco invidiabile metro: negando, di fatto, la possibilità di un’umanità tersa, disinteressata e felice.
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Un esempio di integrazione in salsa capitolina.
Questa cosa i romani la sanno, ma gli altri no: nelle borgate romane c’è questo modo di chiamarsi “zio”. Non è colpa mia, mi rendo conto che sia ridicolo, però succede davero. In particolare – e può essere un paradosso, vista la supposta vetusta età del canonico zio – fra ragazzi. Difficile incontrare un anziano che dica a un amico “oh, zio, andiamo a giocare a bocce”, ma fra i giovani è comunissimo, ed è considerato un modo amichevole – e per nulla raffinato – di darsi un appellativo. Tipico esempio di conversazione del boro (o zoro, grado ulteriore del coatto) «zio, ‘namo ar mare?», «guarda, zì, a me er mare numme piasce, però potemo ‘nnà a ballà, io ma’a comanno ar Sesto Senso» «vabbè, zio, bella petté».
Ecco, qui vicino c’è un siriano – genio – che ha aperto una pizzeria, si sa che i migliori pizzaioli sono tutti egiziani, e l’ha chiamata “da Zio”. Proprio così. Non solo: da tutti i clienti è chiamato “zio”, e – ancora più divertente – li chiama tutti “zio”. L’altro giorno – c’era la partita e quindi la fila – scandiva i turni indicando il cliente successivo e dicendo: «tu zio, cosa prendi?». Non perché li conoscesse, si rivolgeva a tutti così. Il bello è che tutti gli rispondevano con la stessa rima, anche i più anziani. Un vecchino, per dire, gli ha risposto «guarda zì, damme du’ crocchette che ce sta ‘a partita».
Siccome lo Zio un sito internet non ce l’ha, metto qua il suo numero di telefono e qualche altra informazione ricavata dal volantino di cui sopra, ché – l’ho messo nel titolo del post – magari qualcuno ci capita cercando su Google:
Pizzeria da Zio
Via Costantiniana 96 (zona Labaro)
Tel: 06-33624661 Cel: 347-2979524