Quando le rivoluzioni funzionavano

Ho scoperto una cosa che mi ha fatto felice. C’era un tempo in cui le rivoluzioni funzionavano! Un tempo in cui il sistema si poteva sovvertire, e le cose non sarebbero più state le stesse.

Era il tempo in cui andavo all’asilo. La mia scuola materna si chiamava Greenwood Garden: era un asilo in cui si parlava solo in inglese. Ovviamente moltissimi bambini non sapevano una parola d’inglese, e quindi c’era una notevole certa sulla questione. Però ogni volta che un bambino si esprimeva in italiano, le maestre – con tutta la loro dose di affabilità – lo invitavano a provare a farlo in inglese. Cosicché, poi, coloro che sapevano dire quelle due parole in inglese, ma non lo facevano, venivano rimproverati – sempre, ovviamente, con l’amorevolezza della maestra dell’asilo.

Soltanto che questi rimproveri facevano nascere, nei bambini, o almeno in quelli che conoscevo io, il gusto del proibito. Se parlare in italiano era vietato, allora c’era un certo fascino nell’andare contro quella legge! Così l’esprimersi, proditoriamente e non per incapacità, in italiano aveva assunto un connotato di sfida all’ordine costituito che generava l’ilarità di tutti i bambini.
A quel tempo io ero un capopopolo. Ora mi son perso, a 7 anni ero già vecchio: ma al tempo dell’asilo, ve lo dico, non ce n’era per nessuno. Un Martin Luther King in punta di ciuccio. Come direbbe un eroe di guerra: ne porto ancora le cicatrici (davvero!).

E insomma, il Greenwood Garden era una scuola bellissima: c’era un giardino stupendo, un sacco di eventi – già si festeggiava Halloween, sarà per quello che non sono diventato leghista! – e un cavallo di plastica rosso lunghissimo che è rimasto nell’immaginario di chiunque abbia frequentato quel posto.

Però c’era anche una regola terribile: dopo pranzo si doveva dormire. Venivano stesi dei tatami per terra e tutti i bambini erano costretti a fare un’ora e mezzo di sonno. Potete immaginare quanto per il vostro piccolo rivoluzionario quella costrizione fosse del tutto insopportabile. Così, insieme al mio compagno di lotte politiche Danilo, avevamo iniziato a fare la lotta all’ordine costituito. Sdraiati al buio da una parte all’altra del salone dove dormivamo, mentre tutti erano in silenzio, io davo il là: ad alta voce, in italiano, invocavo «NASOOOOO…», e dall’altra parte Danilo rispondeva «….con le CACCOLE!». C’erano le caccole, e c’era il parlare in italiano. Il massimo. Tutti i bambini si mettevano a ridere, e non dormivano per altri dieci minuti quando, a quel punto, e dopo un sonoro rimprovero, Danilo ripartiva: «Naso…» e io: «…con le caccole!».

L’operazione nasoconlecaccole era andata avanti per giorni e giorni, trascinando a quel punto anche altri bambini che si cimentavano nell’esclamazione dei dettagli di quella parte anatomica. Questo trattamento ci era valso – ovviamente, oltre alla valorosa ammirazione degli altri bimbi (nonché della mia fidanzatina, Molly) – delle sonore lavate di capo nella temutissima Stanza di Donna, la temutissima direttrice.
Ma la repressione dei poteri forti non levigò l’ardore ribelle dei vostri eroi che continuarono imperterriti a risvegliare le dormienti coscienze dei compagni di lotta al suon dei nasiconlecaccole, che dovettero arrendersi al progresso e promulgare un editto riparatore.

Qualche settimana dopo fu creato il “not sleeping group”, un manipolo di pioneri dell’avanzamento sociale a cui fu garantito il diritto a non stare un’ora e mezzo al buio senza dormire, ma ad andare a giocare in giardino. Avevo sempre pensato che quel provvedimento fosse durato un poco, finché c’erano questi scalmanati, e che poi fosse stato revocato come una carnevalesca parentesi libertaria appena il manipolo fosse uscito dall’asilo.

E invece. Invece ho scoperto l’altro giorno, incontrando un’amica più piccola che aveva frequentato la stessa materna, che anche due anni dopo c’era un not sleeping group, e che quell’opzione di scelta era stata, addirittura, istutozionalizzata.

Ora so che potrò dire di essere servito a qualcosa, in questo mondo.

Gaza: scudi(s)umani

Due soldati israeliani sono stati incriminati per aver usato un bambino di 9 anni come scudo umano durante la guerra a Gaza. La notizia negativa è quello che è successo, quella positiva è che sia una stessa corte israeliana a portarli a processo.

Sempre a Gaza, ieri, la Jihad Isamica ha manifestato mostrando lo stesso amore per le nuove generazioni. E qui, di positivo, non c’è nulla:

Chi è?

  • Fedele mussulmano che sta pregando in direzione della mecca
  • Un bambino che ha appena imparato a gattonare
  • Paolo!

Il Paese degli uomini veri

Poi leggo cose come questa e penso che Berlusconi sia solo un effetto:

Sono circondato da uomini che in maniera più o meno sdolcinata cercano di conquistare le donne attraverso regali e soprese (…). Il dubbio è che questi siano diventati gay tutto d’un colpo permane. Cavolo, cento anni fa era tutto diverso. (…) Il problema è che ci sono uomini che hanno tradito la loro masculinità per assecondarle. I gay li per sè non sarebbero un problema, perchè sfoltiscono buona parte della concorrenza per conquistare la mia anima gemella. Una donna alla quale dirò chiaro e tondo che io sono un uomo, tutto d’un pezzo. Uno degli ultimi rimasti, come un baluardo sulle sponde di un fiume in piena. Che anzichè travolgermi mi sfiorano per timore reverenziale.

Se in Italia c’è gente che pensa cose del genere, che legge “riviste” come queste, il maschilismo di Berlusconi, quel suo piglio di onnipotenza da soap-opera, la professionale cura nel tentare – sempre – di approfittare della zona grigia fra ciò che è ingiusto e ciò che è illegale, la proditorietà quasi ammirevole con la quale non si imbarazza MAI delle abiette grossolanità che dice – beh, tutte queste cose – sono solamente il naturale esito delle cose.

Prima ancora che in un Paese dove non si fanno decreti interpretativi, voglio vivere in un paese in cui chiunque dica, a mo’ d’insulto “femminuccia”, venga guardato con sdegno da tutti i presenti ed escluso dalla comunità delle persone frequentabili.

Lunedì degli aneddoti – XXXII – Anima pura

Quando mi capita di leggere un aneddoto carino, da qualche parte, me lo appunto per non dimenticarlo: così ora ho un piccolo mazzo di aneddoti che ogni tanto racconto. Pensavo di farci un libro, un giorno, ma forse è più carino pubblicarne uno, ogni tanto, sul blog. Questo ‘ogni tanto’ sarà ogni lunedì.

Anima pura

Mi raccontarono una volta che, alla consegna del premio Nobel per la letteratura, chiesero a Quasimodo «è sorpreso di aver ricevuto questo premio?» E lui rispose «No». Però non ho trovato riscontri, ho anche rivisto la cerimonia di premiazione, ma nessun riferimento. Peccato, perché il personaggio si prestava.

Quando, all’università scoprii che – neppure lui! – si poteva considerare a tutti gli effetti un ermetico, ci rimasi male: che Montale e Ungaretti non lo fossero l’avevo imparato al liceo, ma su Quasimodo un’altra mia certezza fu erosa.
Quasimodo era stato introdotto al mondo letterario Fiorentino, quello di Montale appunto, da Elio Vittorini che era diventato suo cognato quando questi aveva sposato sua sorella, Rosa Quasimodo. Fu una specie di fuitina, a 19 anni, e i due si rifugiarono proprio a casa di Salvatore a Udine.

Su Vittorini c’è un’altra cosa divertente: come molti scrittori del tempo era affascinato dalla letteratura americana, e come tutti aveva letto i classici e i romanzi contemporanei. In più aveva lavorato come traduttore, per qualche anno, prima della guerra. Soltanto che non era il tempo di Youtube, e Vittorini non sapeva parlare ingese, non aveva mai sentito l’effettiva pronuncia, sapeva leggere le parole, ma non capiva quando qualcuno le avesse pronunciate: se ne rese conto quando ospitò lo scrittore statunitense William Saroyan con cui non riusciva a comunicare. Superato il primo imbarazzo decisero per il metodo più artigianale di comunicazione: scriversi tutto su dei foglietti, così che l’inglese – scritto – tornasse a essere quello compreso da Vittorini.

Quasimodo aveva un altro amico: Lupo. Un impresario separato dalla moglie da un sacco di anni, e che – per questo divorzio – non vedeva la propria figlia da tanti anni. Forse per ripagarsi di questo senso di colpa, però, ne parlava sempre, chiamandola “la mia bambina”. Ed era così affezionato a lei, o a questo suo ricordo, che aveva la brutta abitudine – per dire una cosa importante – di giurare su propria figlia, «lo giuro sulla mia bambina».
Un giorno Quasimodo gli regalò un libro di poesie, e sulla prima pagina scrisse così: “A Lupo, anima pura, perché non giuri più sulla sua bambina”.

Francesco De Gregori, che era anche lui amico di questo Lupo, ci scrisse una canzone.
Si chiama “A Lupo”, e non parla di grida.

[Qui il primo: Brutti e liberi qui il secondo: Grande Raccordo Anulare qui il terzo: Il caso Plutone qui il quarto: I frocioni qui il quinto: Comunisti qui il sesto: La rettorica qui il settimo: Rockall qui l’ottavo: Compagno dove sei? qui il nono: La guerra del Fútbol qui il decimo: Babbo Natale esiste qui l’undicesimo: Caravaggio bruciava di rabbia – qui il dodicesimo: Salvato due volte – qui il tredicesimo: lo sconosciuto che salvò il mondo qui il quattordicesimo: Il barile si ferma qui qui il quindicesimo: Servizî segretissimi qui il sedicesimo: Gagarin, patente e libretto qui il diciassettesimo: La caduta del Muro qui il diciottesimo: Botta di culo qui il diciannovesimo: (Very) Nouvelle Cuisine qui il ventesimo: Il gallo nero qui il ventunesimo: A che ora è la fine del mondo? qui il ventiduesimo: Che bisogno c’è? qui il ventitreesimo: Fare il portoghese qui il ventiquattresimo: Saluti qui il venticinquesimo: La fuga qui il ventiseiesimo: Dumas qui il ventisettesimo: Zzzzzz qui il ventottesimo: Teorema della cacca di cavallo qui il ventinovesimo: Morto un papa qui il trentesimo: L’invincibile Marco Aurelio qui il trentunesimo: L’Amabile Audrey]

Vuoi indicare un aneddoto per un prossimo lunedì? Segnalamelo.

Gol!

Ho letto uno status su Gmail, “Viva TARtaglia”. Ho pensato “l’hanno respinto”. Sono corso su Repubblica.it. Intanto che si caricava la pagina pensavo “dài, dài, dài che ce la facciamo”. Ho visto il titolo: Respinto il ricorso, e ho stretto il pugno agitandolo “EVVAI!”. E nei dici secondi successivi pensavo: «dài, che ce l’abbiamo fatta, dài che ce l’abbiamo fatta: ora vediamo che cavolo s’inventano, quelli».

Mi son ritrovato a pensare: cazzo, è esattamente quello che avrei fatto per un gol di Gilardino.
Non so se sono io che mi son ammalato: può essere.

L’Italia non è una dittatura

Io lo so che è difficile, però bisogna ricordarsi – anche ora – di cosa succede davvero nelle dittature. Dei dissidenti che vengono torturati, persone a cui vengono cavati gli occhi e fracassati i testicoli. Martoriati con le scariche elettriche e trucidati. Uccisi. Fatti fuori. Succede in molti paesi del mondo, anche ora.

Ho letto un sacco di gente – anche persone solitamente più attente – che in queste ore sta parlando di dittatura. Non con un’iperbole, proprio parlando a piena bocca: l’Italia una dittatura. Il direttore di Internazionale, oggi, ha scritto questo:

Tecnicamente si può già parlare di dittatura. Forse non ce ne siamo ancora accorti perché siamo abituati ai colonnelli greci o alla giunta militare cilena. Ma quello che conta è la sostanza, non la forma.

Il fatto stesso che l’abbia scritto e sia ancora vivo dimostra che non siamo in una dittatura.

Non dico neanche che bisogna mantenere la calma, bisogna incazzarsi eccome, ma non bisogna perdere di vista il buon senso, se non altro per rispetto alle persone che si ritrovano il cranio fracassato, o non rivedono più una persona cara per aver espresso un parere contrario a quello del dittatore di turno. E succede, anche ora Birmania, Guinea Equatoriale, Libia, Corea del Nord, Somalia, Sudan, Turkmenistan, Uzbekistan, Bielorussia, Chad, Cina, Cuba, Eritrea, Laos, Arabia Saudita, Siria, Zimbabwe, Iran, Congo, Guinea, eccetera, eccetera, eccetera.

Con la sua mano destra in tasca

No, solo per farvi notare che il nuovo campione di statista illuminato, colui al quale la sinistra guarda oramai con ammirazione attònita e come unico punto di riferimento nel fioco panorama della politica italiana per il solo fatto di dire cose di elementare – neanche buonsenso, diciamo – umanità, tipo «anche gli immigrati hanno una dignità» o «lo Stato deve essere laico» o «in un paese civile non si fanno rastrellamenti».

Quello lì, ecco, sì. Gianfranco Fini. Ecco, anche lui su ‘sta faccenda del “decreto interpretativo” sta facendo una figura da raperonzolo.

Due a zero

Avevo scritto che percepivo una misura di disagio nell’esclusione delle liste del PDL dalla competizione nel Lazio, nell’ipotetico caso in cui, successivamente, si dimostrasse ago della bilancia in un’eventuale vittoria di Bonino.

Di sicuro è un malessere ridicolo rispetto alla cialtroneria truffaldina che hanno approvato ora per rimettersi in gioco. Altro che conflitto di interessi, altro che leggi ad personam. In tutti quei casi, per lo meno, si parlava di leggi per arricchirsi o per fuggire un processo. Ma questo decreto è ancora più grave, è una meta-legge ad personam: è una legge che una maggioranza fa per vincere le elezioni.

A livello ideale è come se ora approvassero una legge – lo so che non si può, ma capiamoci – in cui sanciscono che il simbolo dei partiti della coalizione al governo deve essere grande il doppio di quello dei partiti d’opposizione. Sembra proprio «il pallone ce l’ho io, cominciamo da due a zero per me, sennò non si gioca».

Fenomenologia del fumatore prepotente

Chi mi conosce sa che ho un brutto rapporto con i fumatori, o meglio: ho un brutto rapporto con i fumatori prepotenti. La mia idea è che la tua libertà di fumare (o mangiare la carbonara, o saltare sui fili dell’alta tensione) termina nel punto esatto in cui costringi me a farlo. Ed è proprio nella sacralità di questo limite – che non ammette tolleranza – che risolvo l’apparente contraddizione di essere, al tempo stesso, un acceso sostenitore della liberalizzazione dei varî fumi, hashish, erbe, etc e contrario all’imposizione ai non-fumatori delle promanazioni del proprio vizio.

Ovviamente non parlo di tutti i fumatori – anzi, la gran parte dei miei conoscenti che fumano non si comportano così. Non ho neanche una gran concezione salutista della vita: ognuno si può far male come preferisce, basta che non lo faccia agli altri. Però, questo sì, quando discuto con un fumatore prepotente mi imbestialisco proprio: e la mia irritazione accresce all’aumentare della povertà argomentativa degli espedienti che il fumatore-prepotente usa per difendere l’inversione dell’onere della privazione ch’egli mette sempre in atto.

Per “inversione dell’onere della privazione” intendo quel meccanismo mentale con cui, per il tipico esemplare di fumatore prepotente, non è lui a dover tenere il proprio fumo lontano dalla tua faccia, ma è la tua faccia a dover stare lontana dal suo fumo: come fossi tu, e non lui, a fare una cosa che A) fa male B) puzza.
I tre espedienti retorici più comuni, a corollario e motivazione di tale inversione, sono spesso i seguenti:

  • Il teorema dello zio Beppe: «mio zio Beppe ha fumato fino a novant’anni» -> il fumo non fa male. Che è come dire che sporgersi da un balcone al quinto piano di un palazzo non fa male, perché… eh «mio zio Beppe si è sporto dal balcone per decine d’anni». Gli è andata bene, al vostro zio Beppe. (Tanti) altri non sono stati così fortunati.
  • Il teorema del benaltrismo: «ma scusa, anche i tubi di scappamento delle macchine fanno male». E allora? Messo da parte il fatto che, di tutto quello che ho letto io, il fumo passivo fa molto più male, il punto è un altro: questa, semmai, è un’obiezione per lottare in favore delle marmitte catalitiche, non certo in difesa della liceità di fumare in faccia a qualcun altro. Inizia a darti da fare con me contro il fumo passivo, poi – se mi convinci – ci diamo da fare anche contro le marmitte.
  • Il teorema del danno minimo: «ma una sigaretta che vuoi che sia?». E un cazzotto? Anche quello, che vuoi che sia? Il problema è che quale che sia il danno, sigaretta, pugno, sputo in faccia, calcio nei coglioni, quello è un danno che tu stai arrecando a me senza il mio consenso. Certo che, per cose più importanti, uno può sopportare un danno minimo, ma il tuo bisogno di fumare non è più importante della mia salute, fosse anche una porzione piccola della mia salute.

So che, molto spesso, questi sono tic mentali di persone che sono nate e vissute in una società in cui tutti i danni che il fumo causava non erano conosciuti, quindi non c’era nessuna censura sociale e si poteva fumare persino al cinema. Difatti, di solito, sono più indulgente con chi ha una certa età, ma questa è comunque una dimostrazione di ottusità, perché l’intelligenza è – anche – la capacità di cambiare idee e abitudini al giungere di nuovi dati.

Tutto questo per dire – oh, volevo scrivere una piccola introduzione alla foto qui sotto e ho finito per scrivere una fenomenologia del fumatore prepotente – che ho trovato questa foto quasi commovente. Al contrario delle minacce di morte che ci sono ora sui pacchetti di sigarette – che più che necessità d’informare sembrano rispondere alla necessità di terrorizzare – questo cartello è la testimonianza di una persona che vuole bene al prossimo. Lui si chiama, si chiamava, Albert Whittamore e soffriva da tempo di disastri ai polmoni causati dalle sigarette. Aveva chiesto che, dopo la sua morte, accanto alla sua tomba fosse appeso questo cartello: “Il fumo mi ha ucciso”. Come a dire «io oramai l’ho fatto, ma a voi ci tengo: non imitatemi».

AP