Talk show metropolitano

Questa cosa della polizia che mi manda via, a dire il vero, mi deprime proprio. Non mi arrabbio neanche, è proprio il concetto dell’utilizzare il proprio piccolo spazio di potere per fare qualcosa che non produce nessun giovamento alla comunità.

L’idea che le regole non servano per rendere vivibile e bella la vita delle persone, ma per essere applicate, anche quando quest’applicazione non sia di alcun beneficio. È una cosa di cui, ogni volta, non mi capacito: ma non faccio nulla di male. Le persone si divertono. Mi metto in un angolo, non infastidisco nessuno, e non c’è nessun fine di lucro.

Anche un sacco di gente che mi legge, e che mi ha scritto non se ne capacita: i più combattivi, Max e Fabio – che non a caso vivono lontano dall’Italia da più di qualche anno – non se ne capacitavamo: «lo sai che qui in America non potrebbe succedere?» «quello è un diritto garantito dalla Costituzione» «certo, ci sono divieti specifici: non si può fare davanti a un ospedale, o a un ufficio postale, per non intralciare. Ma sono divieti sensati. Per il bene di tutti».

E va bene, dunque, avete capito: l’autorizzazione della questura per le manifestazioni non serve a nulla perché è il Comune di Roma a doverla dare, per occupazione di suolo pubblico. E quella si deve pagare. Io trovo inconcepibile che si debba pagare, anche pochi euro, per mettersi in strada a parlare con la gente. E allora, sulla scorta della giornata dell’altro ieri in cui era stata la pioggia e non la polizia a mandarmi via, ieri ci ho riprovato.

Però con più caparbietà, ogni volta che mi dicevano «qui non ci puoi stare» «perché?» «perché qui non ci puoi stare» io insistevo un po’ nel chiedere le ragioni, e alla fine mi dicevano «vai più in là che non è di mia competenza». Anche perché molte delle persone che stavano parlando con me s’arrabbiavano, talvolta lasciandosi andare a improperî anche un po’ demagogici: «ma andate ad arrestare chi ruba invece di dare fastidio alla gente!» e così via.
E così io mi spostavo un po’ più in là da Piazza del Popolo a risalire in Via del Corso.

Perciò, così facendo, ho accumulato varie chiacchierate e varie facce, che – allora – vi racconto e vi faccio vedere:

Per primi sono arrivati Leonardo, Giulia e Claudia. Leonardo non si era ancora seduto, ha appoggiato i gomiti sullo stendino, e mi ha chiesto: «beh, allora tu credi in Dio?». Come se fosse un discorso che avevamo lasciato in sospeso quella mattina. Io gli dico: «sei tu Dio?». Dice «ho paura di no». «E allora mi sa che non mi si è ancora manifestato», gli ho detto. Allora Giulia e Claudia hanno iniziato a parlare dei misteri. Bell’argomento i misteri, peccato che ci abbia interrotto la polizia venuta a cacciarmi. Abbiamo fatto in tempo a fare una foto, però (Claudia non ha ancora diciottanni):

È arrivata Francesca, poi, appena riposizionatomi. Mi ha detto «di che si parla?» e io le ho detto «lo chiedo io a te, di qualunque cosa!» E lei, «raccontami una barzelletta, ché mi ci vuole proprio». Le ho raccontato quella di quello con tre palle, che chiunque mi conosca avrà sentito – è uno dei miei pezzi forti – Francesca ha riso tanto, mi ha ringraziato ed è andata. Ecco Francesca (ero di corsa, ho fatto la foto col cellulare):

È arrivato poi Claudio, che mi ha chiesto della mia famiglia, e di dove sono: gli ho detto che è difficile da dire perché tutti, mia madre, mio padre, mio nonno, mia nonna, mio nonno, mia nonna, sono di posti diversi, e io sono nato in un altro posto ancora. Mi ha chiesto della mia nonna materna, e allora gli ho detto che è nata a Sovicille (SI) ed è della contrada dell’istrice. Poi mi ha chiesto della legge sulla par condicio televisiva, ma è arrivato un nuovo allontanamento da parte della politiz – menomale – ché non ero molto preparato! Però così mi son dimenticato di fare la foto, e allora ci metto quella di Gabriele, con cui avevo parlato (taaanto) ieri e non l’avevo messa:

Già su Via del Corso sono arrivati Emanuela e Andrea: Emanuela mi ha detto che la mia iniziativa le ricordava un video-musicale-di-un -cantante-americano che andava in giro con scritto “free hugs”. Le ho detto che un abbraccio, se voleva, potevo darglielo anche io. Ma che c’erano altre persone che lo facevano, di abbracciare gratis.
Poi, proprio mentre stavano lì, si è affacciato un ex-collega di Andrea, che abita a Napoli e capitava per caso a Roma! Il collega ci ha fatto la foto:

Con Jacopo e Christian abbiamo cominciato a parlare di Israele e Palestina, perché mi avevano chiesto cos’avevo fatto negli ultimi due anni. Poi però siamo passati alle crociate. La mia personale crociata contro gli spremi agrumi elettrici. Ho spiegato loro che spremere le arance è l’unica cosa al mondo che, mentre la fai, pensi solo a quello. Mentre leggi, giochi al computer, guidi, pensi sempre a qualcos’altro: ma se spremi un’arancia no! Pensi solo a quello. Mi hanno detto che non ci avevano mai fatto caso e che la prossima volta ce lo avrebbero fatto. «Allora la prossima volta che spremerete le arance penserete a me?» «Sì», mi hanno detto, sciagurati: «ma allora non avete capito niente: mentre si spremono le arance non si deve pensare a nulla!».

Poi sono arrivati Leone e Mattia, a Mattia ho chiesto immediatamente una foto: e sapete perché? Altro che mondo piccolo, lui s’era già fermato a parlare con me quest’estate! Quella che vedete qui sotto non è una “V” di vittoria, ma un 2! Come le due volte che ci siamo incontrati:

A Leone, invece, ho detto che avrei potuto parlargli di qualunque cosa. Ma non solo, tenendo qualunque posizione. Lui mi ha chiesto, allora, di convincerlo che “Berlusconi è bravo”. Niente di più facile. Gli ho raccontato di come Berlusconi avesse eluso il divieto di trasmissione su scala nazionale per le TV private con un espediente: facendo trasmettere a un bastione di televisioni locali lo stesso programma alla stessa ora.
Poi Leone era talmente tanto bravo a parlare che gli ho offerto il mio posto, sono andato di là, e mi sono fatto dare un po’ di consigli sulla mia vita. Vedremo quando li metto in pratica:

Un sacco di gente passava, come al solito, e si metteva a ridere, o commentava: «grande!»: ma il commento più bello è stato di un ragazzo che è passato insieme alla fidanzata, e mi ha fatto «guarda, questa nun parla manco a me, figurati».
Uno che invece parlava troppo era Michele, talmente tanto, che per allenarlo ad ascoltare i suoi amici, un altro Michele e Giovanni, mi hanno chiesto il rotolo di scotch e l’hanno piazzato così davanti a me:

Con gli altri suoi amici ci siamo messi a parlare di tag, e di scritte sulle metropolitane. Ho detto loro che i disegni mi piacciono, ma le scritte no. Poi hanno fatto battute omofobiche sul “rompere il culo” e abbiamo iniziato a parlare di omosessualità, di froci. Mi hanno detto che i gay sono contronatura. Forse avete anche ragione, ho detto loro, anche se ci sono un sacco di scimmie omosessuali. Ma anche il matrimonio è contronatura: avete mai visto due scimmie sposarsi? Eppure nessuno dice niente. Giocare alla Playstation è contronatura: però ci gioco. E così via.
Peccato che l’altro Michele e Giovanni non si siano voluti far fotografare: solo la mano:

Poi è venuta questa signora spagnola, mi ha chiesto se parlavo di qualunque cosa solo in italiano. Le ho detto che lo facevo anche in inglese, ma lei mi ha chiesto se lo facevo anche in spagnolo. Le ho detto: beh, proviamo, e mi son messo a provare a rispolverare i miei due esami universitarî di lingua spagnola, rendendomi conto che non mi ricordavo NULLA. Si chiamava Suzana, la signora, e nel nostro comunicare maccheronico ci siamo capiti un po’. Mi ha detto che fa l’insegnante di sostegno, e io le ho detto che anche mia madre è stata insegnante di sostegno per tanti anni, e poi che non crede in Dio. Neanche io ci credo, le ho detto. Mia madre invece sì, pure troppo.

Intanto si era creata una folla di persone che si erano messe ad aspettare per parlare con me, saranno state venti. A un certo punto erano talmente tante che ho fatto una foto. Così sembrano passanti, ma in realtà erano lì ad aspettare!

Sono poi venute Livia e Selene, entrambe piccoline, sedici anni. Mi hanno iniziato a spiegare come i loro coetanei sono stupidi perché seguono i Tokio Hotel anziché i Green Day. Accidenti, i Green Day, ho pensato. E gliel’ho detto: all’età loro andai a un concerto a Marino che fecero. Esistono ancora, dunque.

Selene mi ha detto che si faceva la foto ma con la mano davanti, perché non voleva che sua madre la vedesse (che poi dubito che la mamma di Selene legga questo blog). Livia invece, alla sua, ha voluto fare la linguaccia:

Alla fine sono venute Sabina, Pamela, Giovanna e Andreia, avevamo iniziato a parlare in quel momento quando sono arrivati di nuovo e definitivamente a cacciarci. Ci siamo fatti la foto quando, ancora ignari, pensavamo di farci una bella chiacchierata: invece sullo sfondo si vede la poliziotta che verrà a mandarci via. Il colmo è che accanto a noi c’erano due o tre macchine parcheggiate in stradivieto di sosta che occupavano molto più “suolo pubblico” su Via del Corso.
Avevamo iniziato a parlare del volontariato, tre di loro erano delle volontarie che aiutavano la quarta, sulla sedia a rotelle. Sarebbe stata una bella chiacchierata, anche a giudicare dalle facce:

Poi basta, sono andato via. Ero un po’ stufo di sparaccare e ribaraccare, e poi stava venendo il freddo.

Quanto al titolo, beh, grazie a Davide: questo sì che è un Talk Show – tanto talk, e un po’ di show – mica Bruno Vespa!

San Valentino

Tanti auguri. Agli unici innamorati al mondo che non possono permettersi di non sopportare questa festa. Che non hanno il diritto di sogghignare dei lucchetti a Ponte Milvio o farsi venire l’urticaria per le strade tappezzate di cuori di peluche rossi. Di ridere delle scritte per terra, o di considerare kitsch le scatole di cioccolatini a forma di cuore.

In Arabia Saudita festeggiare San Valentino è vietato dalla legge. Ti viene a prendere la Polizia per l’imposizione della virtù e l’interdizione del vizio. Non è uno scherzo, si chiama così. E “chi non si conforma, verrà punito“. Perché amarsi è un’idea occidentale.

A tutti coloro per i quali volersi bene è – necessariamente – un atto rivoluzionario, a loro, buon San Valentino.

Avrà assunto il ghostwriter di Veltroni

E io che pensavo che un orso come Emidio avesse la sensibilità di un blocco di tufo!

Devo ricredermi: leggete come racconta dei suoi primi passi come convertente ai – poi convertito al di fuori dei – Testimoni di Geova. Abboccato al romanticismo della dichiarazione finale, aggiungerò una cosa che – qualcuno dirà – non mi spetta: se al suo matrimonio, fra tre mesi, non parteciperanno i genitori – perché lo considerano un apostata – ma ci saranno degli amici come quello di cui racconta qui, beh, tanto di guadagnato.

A predicare si va in due. Penso che serva per evitare di lasciarsi convincere dalle persone che si vanno a convertire. Non che non si sia incoraggiati a predicare sempre, anche quando si è da soli, dando così “testimonianza informale”. Però ad un certo punto ci si mette giacca e cravatta – gonna lunga, nel caso delle donne – e si va a predicare. […]

Verso i sedici anni ho cominciato con un mio compagno di classe. Ho fatto una eccezione per lui, ateo: ci andavo da solo. Il problema è che ho preso più cose da lui di quanto sia riuscito a trasferirgliene. Avevo tipo 16 o 17 anni, di sicuro si andava ancora alle superiori. Gli studi biblici erano una cosa basata su dei precisi manuali – “Potete vivere per sempre su una terra paradisiaca” – in genere. Con lui, invece, eccezione, erano più una chiacchierata. E di eccezione in eccezione cominciavo a pensare.

Insomma, non riuscivo a conciliare il fatto che una persona come quella, una persona che non poteva essere malvagia – per il semplice fatto che non lo era e io lo vedevo – dovesse essere distrutta. Così una volta gli dissi – me lo ricordo come se fosse ieri – perché se una frase non ti cambia la vita, sicuramente può contribuire: «io penso che fra dieci anni sarai un testimone di Geova». Lui – di getto – mi rispose: «io penso che fra dieci anni sarai ateo».

Ecco. Appunto. Ma ci tengo a non dagliela vita del tutto. Dato che non sono riuscito a farlo diventare testimone di Geova, gli farò fare il testimone di nozze.

Resoconto senza foto

Sono partito che nevicava ancora, ci ho messo 2 (due) ore ad arrivare in centro con una Roma in condizioni cataclismatiche. Quando sono arrivato lì non nevicava più, e la neve era praticamente andata tutta via.

Devo dire che mi aspettavo che le persone fossero più spaventate dal freddo, invece no. Ho iniziato a parlare con Piero, un personaggio strano. In realtà non si chiamava mica Piero. Ripeto, era un personaggio strano. Gli avevo chiesto di farsi una foto, per metterla sul blog. Mi ha detto di no. Gli ho detto, dài, almeno facciamo una foto al busto, alla mano, a quello che ti pare, così ce l’ho per ricordo. No, dice: sono avvocato, ti faccio causa! Ora, vabbè, per una foto? Insomma, gli ho chiesto «come ti chiami?», neanche quello mi ha voluto dire. Gli ho detto di inventarsi un nome, almeno, che almeno così potevo ricordarmelo in qualche modo. Mi ha detto Giampiero, facciamo Piero, ho detto io. Chissà perché aveva voglia di dirmi il mestiere che faceva, e non il suo nome. Lui però non era scorbutico, e sembrava molto contento di parlare con me – d’altronde l’aveva deciso lui!

Io gli ho detto che dovrebbe fidarsi un po’ più delle persone. È vero che delle volte così si rimane scottati. Ma meglio un paio di scottature all’anno, che stare tutto l’anno a vedere tutti attraverso dei cupi occhiali da sole soltanto per non scottarsi.  Comunque abbiamo parlato di Antonella – anche lei nome inventato – che è la sua ex fidanzata, era stata con lui per 6 mesi. Poi mi ha raccontato una storia tetra in cui lei si è allontanata, e lui è rimasto lì. Ma proprio, esattamente, lì. Però mi è sembrato che né lei fosse esattamente quello che voleva lui, né lui fosse esattamente quello che voleva lei. E che quindi la sua rincorsa a lei – che di solito, invece, suggerisco sempre – potesse portare buoni risultati. Mi ha chiesto un consiglio definitivo, e gli ho detto una cosa che a lui è piaciuta molto, anche se non era intesa così filosoficamente: che un autobus, una volta perso, non puoi riprenderlo. Però puoi corrergli dietro un saaaacco di tempo.

Dopodiché è andato via, avevamo parlato per un bel po’, forse venti minuti. Si erano affacciate altre persone, ma non sono intervenute. Ecco, una cosa che ho notato questa volta è che le persone erano più rispettose delle discussioni degli altri. L’altra volta anche se c’era già qualcuno a parlare, in postazione, altri si affacciavano. Questa volta invece tutti ad aspettare a distanza. Quando mi son messo a parlare con Gabriele sono passati due o tre gruppi di persone, si mettevano lì e aspettavano. Uno era un gruppo di ragazzi che stava raccogliendo i soldi per i Cento Giorni. I non-romani non sapranno cosa sono: a cento giorni dall’esame di maturità si va in giro per Roma con un salvadanaio a chiedere delle monete ai passanti per finanziare questo breve viaggio (in cui, ovviamente, si salta scuola) a cui partecipa tutta la classe. L’obiettivo è quello di riuscire a fare l’intera vacanza – che di solito ha budget molto ristretti – a spese del popolo.

Gabriele, dunque. Intanto anche quel poco di neve che c’era era andata via, così ho messo il nuovo cartello nello zaino, e sono tornato alla modalità parlatore standard (anche se avevo ancora indosso la tuta completamente bianca e i Moon Boot). Gabriele è venuto espressamente per chiedermi un consiglio su che strada prendere nella sua vita attuale: lavoro, principalmente, ma si legava a tante altre cose, amore, religione. Poi, già che eravamo entrati in tema ho deciso di regalargli un libro, questo libro, spero che lo legga. Le strade erano 3, perché una – la quarta – l’abbiamo esclusa subito. Abbiamo escluso anche la terza, che forse era quella che più si aspettava che caldeggiassi, e forse era venuto per farsi spingere a, ovvero quella di mollare tutto e fare del volontariato. Gli ho detto che il volontariato lo deve fare solo se lo sente al 100% e non ha dubbi. Se ora è un momento in cui la vita gli sorride non c’è ragione di mollare tutto per una cosa di cui non è convintissimo. Momenti grigi, purtroppo, ce ne saranno. E con essi l’occasione di mollare tutto. A un certo punto ho detto a Gabriele che una cosa che mi aveva detto era “un po’ falsa”, e lui mi ha risposto «se è ‘un po” falsa significa che è anche un po’ vera». Ho dovuto dargli ragione, e mi è piaciuto.

Ha ricominciato a piovere, poi, e a diluviare. Così siamo stati costretti a sbaraccare sul più bello. Già che non avevamo finito di parlare, con Gabriele, gli ho proposto di venire andare a mangiare qualcosa e continuare la chiacchierata, e ne è valsa la pena.

Il colmo è che dopo qualche tempo era tornato il sole, ma noi eravamo già andati via. Mi è dispiaciuto talmente tanto stare così poco, che ho deciso che ci torno domani, sabato, dopo le 14 ché prima ho da fare, sempre a Piazza del Popolo.

Fare questa cosa, prima che tutto il contorno che si è creato poi – liberatorio, filosofico, aperto, coreofrafico – è divertante, tremendamente divertente. Ed è un modo molto bello per conoscere la gente.
A domani, con qualche foto in più.

Non è un Gatto, è un Matto!

Non sarà certo un’insperata nevicata a fermarci!

Matto delle nevi
Cambio di destinazione: Piazza del Popolo. Con la neve!
Voglio proprio vedere che la polizia mi cacci in una giornata come questa!

Parlo con chiunque, venerdì

Che sarebbe domani. Alla fine sono andato alla questura centrale e mi hanno spiegato che è abbastanza facile avere il permesso per mettere due sedie e parlare con chiunque di qualunque cosa, ma il problema è che spessissimo le piazze del centro sono occupate da varî tipi di manifestazioni, ultimamente c’è il Carnevale di Roma ed è tutto occupato da e per due settimane.

Così ho deciso che il posto migliore, dove avrebbero fatto meno problemi, fosse l’università: lì son sicuramente più tolleranti, e di spazio ce n’è a volontà. Ho pensato di andare al pratone della Sapienza e di andarci verso l’ora di pranzo, le 13.00 o giù di lì così da poter approfittare del pallido sole invernale, e comunque rimanere per un po’, magari finché fa buio. Ho pensato che fosse meglio domani perché il venerdì mi sembra un giorno buono per la frequentazione dell’università, e non dovrebbe piovere.

Mi ha contattato un giornalista del TG1 che sta facendo un servizio su questo tipo di iniziative. Effettivamente non so se ci sia un “tipo”, so che faranno lo stesso per “Free hugs”, quelli che abbracciano gratis, gli uomini libro, quelli che leggono i libri alla gente, e così via. Mi ha chiesto se può venire a registrare qualche immagine anche della cosa che farò io. Io ho pensato che non ci sia nulla di male a riprendere quello che faccio, se lo faccio. Qualcuno dirà che riprendere con le telecamere snatura l’iniziativa. Forse ha ragione, ma forse no. In ogni caso non credo che staranno molto.

Riceviamo e volentieri pubblichiamo

from: V. Fantechi
to: G. Fontana
date: Tue, Feb 9, 2010 at 1:01 PM
subject: rettifica

Ti chiedo una rettifica sul blog così concepita. – mia nonna mi chiede di pubblicare questa rettifica: «nonno Vittorio mi avrebbe apprezzato ed amato moltissimo perchè era capace di riconoscere il buono anche laddove certi atteggiamenti e qualche idea non collimassero con i suoi. L’aver rinnegato senza ripensamenti la sua infatuazione giovanile per Mussolini lo dimostra. Mi ha anche, come previsto, precisato che l’albero non era il nespolo ma era ed è il noce, risaputamente lento a crescere e fruttificare, e molto longevo».

Lunedì degli aneddoti – XXIX – Morto un papa

Quando mi capita di leggere un aneddoto carino, da qualche parte, me lo appunto per non dimenticarlo: così ora ho un piccolo mazzo di aneddoti che ogni tanto racconto. Pensavo di farci un libro, un giorno, ma forse è più carino pubblicarne uno, ogni tanto, sul blog. Questo ‘ogni tanto’ sarà ogni lunedì.

Morto un papa

Permettete una volta, negli aneddoti, di raccontare una storia di casa mia, perché – anche se non è storico o accaduto a qualche personaggio celebre – trovo che questa valga la pena di essere raccontata. Talmente ne vale, che sfido il rischio – pressoché certo – che domani mi arrivi un’email dei nonni che si lamentano per l’imprecisione nei particolari di queste memorie («era un albero di albicocche, non di nespole!»).

La mia bisnonna si chiamava Lina, ogni volta che viene rievocata, assieme a lei viene evocata anche la sua proverbiale maestria nel giocare a carte, e soprattutto la sua mefistofelica attitudine nel bluffare: «ho delle carte orribili», diceva sempre Nonna Lina; si vestiva d’una faccia sconsolata e tutti finivano per crederci. Poi in quattro e quattr’otto chiudeva la partita. Ma la volta dopo, ancora, e quella successiva «ho delle carte orribili»: recitava di nuovo la stessa parte, e non ce n’era uno che una buona volta smettesse d’abboccare.

Nonna Lina era sposata con Nonno Vittorio, io non ho conosciuto né l’una né l’altro: forse è stato meglio così perché so che non gli sarei andato troppo a genio – Vittorio era un uomo d’ordine, severo e all’antica. Fascista della prima ora, fece anche la Marcia su Roma, per poi scoprire negli anni Trenta che il Duce non era – né aveva – una promessa mantenuta. Su di lui si racconta della piantina di nespole che aveva piantato negli ultimi anni della sua vita, per farne un albero, anche se ci avrebbe messo decenni a crescere: lui diceva «non le mangerò io, le nespole, ma qualcuno le mangerà per me». (buone!)

Nonno Vittorio era un omone alto quasi 1.85, che per il tempo era tantissimo. Lui e Lina non se li davano neanche gli appuntamenti: non c’erano telefoni, ma che bisogno ce n’era? Quando Vittorio arrivava in piazza, Lina lo vedeva da lontano stagliarsi su tutti gli altri: era il più alto del paese. E si vedevano – o meglio, lei vedeva lui – così.

Nonno Vittorio e Nonna Lina si fidanzarono abbastanza presto. Si racconta che lui fosse molto innamorato di lei. Però successe un fatto: quando Vittorio partì per fare il militare erano ancora fidanzati, con la prospettiva abbastanza concreta di sposarsi al suo ritorno. Durante la leva, però, gli vennero alcuni dubbi, o forse – chissà – dei capricci: si domandava se era davvero sensato quel matrimonio, se quei loro sentimenti fossero genuini, e tanti pensieri più articolati di così. Perciò prese carta e penna e si mise giù a scrivere, e a scrivere, una lunga lettera in cui esprimava alla sua ventura sposa tutti i suoi dubbi, le sue perplessità, le ragioni che lo spingevano a dubitare: che forse questo matrimonio non s’aveva da fare. Tutto ciò senza trascurare la possibile reazione della fidanzata, premurandosi di come Lina avrebbe ricevuto questa lettera, industriandosi a scrivere perché non ne soffrisse troppo, e cercando di metterci tutta la delicatezza di cui le sue corde erano capaci.

E, a onor del vero, di scenate Lina non ne fece proprio. Quando ricevette la lettera, la prese in mano, la lesse da cima a fondo, con attenzione. Poi volle rispondere – prese carta e penna anche lei, e ci scrisse la bellezza di otto parole: «morto un papa se ne fa un altro».
Beh, non si lasciarono più.

(Con rettifica)

[Qui il primo: Brutti e liberi qui il secondo: Grande Raccordo Anulare qui il terzo: Il caso Plutone qui il quarto: I frocioni qui il quinto: Comunisti qui il sesto: La rettorica qui il settimo: Rockall qui l’ottavo: Compagno dove sei? qui il nono: La guerra del Fútbol qui il decimo: Babbo Natale esiste qui l’undicesimo: Caravaggio bruciava di rabbia – qui il dodicesimo: Salvato due volte – qui il tredicesimo: lo sconosciuto che salvò il mondo qui il quattordicesimo: Il barile si ferma qui qui il quindicesimo: Servizî segretissimi qui il sedicesimo: Gagarin, patente e libretto qui il diciassettesimo: La caduta del Muro qui il diciottesimo: Botta di culo qui il diciannovesimo: (Very) Nouvelle Cuisine qui il ventesimo: Il gallo nero qui il ventunesimo: A che ora è la fine del mondo? qui il ventiduesimo: Che bisogno c’è? qui il ventitreesimo: Fare il portoghese qui il ventiquattresimo: Saluti qui il venticinquesimo: La fuga qui il ventiseiesimo: Dumas qui il ventisettesimo: Zzzzzz qui il ventottesimo: Teorema della cacca di cavallo]

Vuoi indicare un aneddoto per un prossimo lunedì? Segnalamelo.

Oddio, Ballerini

Oddio, è morto il Ballero.

Quel paio di volte che l’avevo visto di persona mi era sempre sembrato una persona immediata, divertente, speciale.
Uno di quelli da osteria, e battuta facile. M’ha proprio stroncato il cattivo umore in gola, questa notizia.

Come ricordarlo? Come dimenticarlo. Il racconto più bello del Ballerini corridore la scrisse Marco:

Forse una cosetta che Hinault non può dire di aver fatto c’è: non può dire di avere vinto entrambe le Rubé, quella bagnata e quella secca. Se lo fai, allora sei laureato. Laureato in Rubé. L’ultimo che c’è riuscito è stato Maestro Ballerini, vincitore tra la polvere nel ’95 e sul fango nel ’98. Corridore forte il Ballero, intendiamoci. Un bel passista da classiche. Peccato non fosse veloce, avrebbe vinto molto di più. Ma sui sassi della Rubé, signori, diventava irresistibile. Un fenomeno. Una sintesi di Merckx e Coppi. C’era da lustrarsi gli occhi, a vederlo. Andava via leggerissimo, agile, ma potente. E gli altri non riuscivano a stargli dietro. Un paio di volte l’ha anche buttata via, la Rubé. Quella più clamorosa fu nel ’93. Era il più forte di tutti. Li ha staccati tutti, in rimonta da dietro. Alla fine, gli è rimasto attaccato solo il vecchio Duclos-Lassalle, uno che già solo dal nome dovresti capire che non ti puoi fidare. Ballerini lo staccava di cinquanta metri ad ogni tratto di pavé. Poi rallentava, e permetteva che il francese gli tornasse sotto. Perché? Perché la strada per Roubaix era ancora lunga. E andare in due è più facile. Ballerini non era ancora sicuro dei suoi mezzi (le corse si vincono con la testa, anzitutto) e temeva che da dietro potessero tornare sotto (ma quando mai? lui volava, gli altri facevano fatica a stare in piedi) e si tenne dietro Duclos-Lassalle. Il quale sbuffava, diceva di non farcela più, di stare per morire, e che in cambio del secondo posto avrebbe aiutato Ballerini. E davvero, Ballerini doveva frenare per aspettarlo ogni volta. Arrivarono nel velodromo con più di due minuti sugli inseguitori. Partì la volata. E Duclos-Lassalle, che s’era risparmiato andando al traino, beffò Ballerini di dieci centimetri. Quando arrivò l’esito del fotofinish, Ballerini si mise a piangere come un vitellino. Credo che non abbia dormito per una settimana. Non è un caso che le due volte che poi vinse il Ballero arrivò da solo. Fidarsi è bene, non fidarsi è meglio. Partì e staccò tutti in modo imbarazzante (per quelli che rimasero staccati). La seconda volta (Roubaix bagnata) massacrò Tafi (mica un pirla qualsiasi, uno che la Rubé l’ha pure vinta, dopo) lasciandolo a quattro minuti e mezzo. E gli altri non me lo ricordo neanche a quanto. Diciamo che qualcuno arrivò quando lui, il Ballero, aveva già finito di farsi la doccia.

La foto in cui più mi piace ricordarlo è questa, con il suo amico, compagno e corridore Paolo Bettini con indosso la maglia iridata appena conquistata da entrambi. C’ero anch’io, quella volta a Salisburgo, entrambi mi fecero gioire divertito, di quell’euforia calda e casereccia che soltanto il ciclismo può dare.

Ballero Bettini

Vàntatene

Min. Luca Zaia: «Molti della sinistra mi voteranno». Eh, se ti votano tanto di sinistra non sono.
«I leghisti sono i veri no-global». Sempre detto io.