Momenti che rovinano un’infanzia

Visto che siamo in tema di malattie letterarie racconto una cosa: c’è una regola assurda, che sanno (e interessa) solo ai fissati come me, per la quale in italiano “da solo” si dovrebbe pronunciare dassolo. Esattamente come davvero si pronuncia davvero, o va bene, attaccato si pronuncia vabbene.
Lo so, è una regola per ostinati intestarditi nerd al cubo, ma c’è chi le va dietro. Fra questi va dietro ci sono io.
(per chi volesse entrare nel club si chiama “raddoppiamento fonosintattico”)
Nessuno ci fa più caso, e da quando è nata Mediaset, o Fininvest, e quindi il centro linguistico si è un po’ spostato a Milano l’attenzione per queste cose – che a Milano sono tutte sballate (e difatti lì pronunciano vabene e non vabbene), quindi insomma – è stata completamente cancellata. Più che una battaglia coi mulini a vento è una non battaglia, perché è talmente già persa che è davvero raro che – perfino i rompipalle come me – facciano riferimento a questa cosa.

Però c’è un fatto che mi porto dentro da quando ero bambino e che ha turbato la mia crescita: alle elementari quando dicevo dassolo – a quel tempo lo facevo senza consapevolezza, e dicevo anche “te” al posto di “tu” – gli altri bambini mi prendevano in giro un sacco. Io dicevo loro che avevo ragione, però – a Roma – ero in drammatica minoranza. C’era un mio compagno delle elementari a cui ero affezionato, si chiamava Filippo Lupi, non lo sento da più di dieci anni, che con amorevole piglio ogni volta provava a aiutarmi a dire dasolo, e io gli dicevo «non ci riesco» (te lo confesso, Filippo, mentivo!).

Alla fine me n’ero quasi convinto pure io di stare sbagliando, ma il dramma violento avvenne quando in un tragitto da scuola a scuola calcio, in macchina con un mio compagno di classe, Fabio Pizzino, questi mi chiese «perché dici dassolo invece di dasolo?». Al che io, con la sicumera senza argomenti del bambino di 7 anni, risposi: «perché si dice dassolo». Ecco, in quell’istante la madre  di Fabio disse: «no, si dice da solo». Il momento più drammatico della mia infanzia. In quell’attimo tutte le mie certezze crollarono, e la mia bambinezza si avviò verso una cupa adolescenza senza più la gioia del sapere che tutto quel che dicevo era giusto.

Quando, all’università, ho scoperto che – invece – è giust dire dassolo, la mia testa è subito volata a quell’incontro lì: andrei a casa Pizzino – se abitano ancora dove abitavano tanti anni fa, e ci facevano i Nutella Party – alle 3 di notte a citofonare e urlare nel citofono «hai capito??? Si dice dassolo! Si dice dassolo! Avevo ragione io!!!», rapirei tutti i componenti della famiglia fino a quando la madre non rilasciasse un comunicato a tutte le agenzie di stampa che reciti “aveva ragione lui. Si dice dassolo». Cancellerei tutte le scritte ioettetremetrisopralcielo di cui è segnato il tracciato dalla loro casa a lavoro per scriverci solo “da solo” “da solo” “da solo”, per dieci chilometri e senza soluzione di continuità.

Sapete che c’è, una volta lo faccio davvero, senza rapimenti però: vado lì, all’ora del tè, citofono. Ciao sono Giovanni Fontana, sì, quel Giovanni Fontana, no ecco, sì è tanto tempo. Lo so. Ecco sì, volevo salire. Oh ciao non siete cambiati per nulla, ecco, sì, che piacere vedervi, che faccio nella vita? No, cioè sì, sentite io sono venuto, ecco, per dirvi una cosa. Per me è una cosa davvero importante, sì dunque: quella volta avevo ragione io. Ecco, l’ho detto. Ci vediamo fra altri dieci anni. Ciao, statemi bene.

27 Replies to “Momenti che rovinano un’infanzia”

  1. non è che si dice, è l’uso del fiorentino (e dei dialetti centromeridionali in genere) e quindi, teoricamente, pure della dizione italiana… nel senso della dizione se studi dizione e fai l’attore… lo dico solo per sottolineare che io non dico né dirò mai dassolo, accasa, vabbene e non sto sbagliando 😉

    non dirò neanche illa secrita abboce, stai tranquillo

  2. suibhne scrive::

    lo dico solo per sottolineare che io non dico né dirò mai dassolo, accasa, vabbene e non sto sbagliando

    Beh, semplicemente non stai parlando italiano; ma un dialetto, o una via di mezzo fra l’italiano e un dialetto.

    Come tu, ad esempio, in inglese “speak” lo pronunci qualcosa di vicino a “spic” e non “spèac”. E se pronunci “spèac” parli peggio di uno che pronuncia “spic”.

    Fra l’altro sicuramente anche nel tuo dialetto ci sono dei raddoppiamenti, come del resto in romano non c’è quello dopo il “da” che, invece, etimologicamente sarebbe corretto (de+ab).

  3. non credo di essere molto d’accordo, mi pare che rischiamo la rigidità normativa
    una lingua è fatta dalla comunità dei parlanti ed è in evoluzione
    quando non c’era una reale comunità di parlanti italiano, aveva senso identificare nell’idioma dei parlanti fiorentino o toscano la norma dell’italiano, e proporla (o imporla) al resto dell’italia barbara e indotta
    ormai l’italiano c’è, e va rendendosi indipendente dal suo genitore – ha cominciato da subito, con “bacio” e “buono” anziché “bascio” e “bono”
    del resto, Giovanni, a proposito della fluidità della norma linguistica: tu diresti anche che “lui” e “lei” non possano essere usati come soggetto? e se sì, quando sarai rimasto solo tu a sostenerlo, a chi li rivolgerai i tuoi “egli” ed “ella”?

  4. Pensate ancor voialtri fiorentini
    poi ch’inventaste l’Italian idioma
    d’esser li soli figli de’ latini
    e ci stressate quasi fino al coma
    alzando al cielo artritici ditini
    qual brontoloni zii con il glaucoma
    che gli si fa pat-pat in sulla spalla
    e dietro poi si mormora ‘cheppalla’.

  5. Pensa che alle superiori venni preso in giro dal professore di storia e geografia per aver chiesto ad una mia compagna – che era stata in Africa – se aveva visto anche elefanti.
    “Ma cosa dici? Gli elefanti sono in India!”

  6. ahahahahahahahhahh bellissimo post… e mi sa che per quel poco che ti conosco ci andrai davvero, dai Pizzino, a chiudere il capitolo!

  7. Peppino scrive::

    Pensa che alle superiori venni preso in giro dal professore di storia e geografia per aver chiesto ad una mia compagna – che era stata in Africa – se aveva visto anche elefanti.
    “Ma cosa dici? Gli elefanti sono in India!”

    E ho imparato una cosa nuova.

  8. @ Shylock:
    Però ‘sto complesso d’inferiorità nei confronti dei fiorentini ve lo dovreste levare una volta per tutte!
    Fra l’altro a Firenze dicono bòno, te anziché tu, /caza/: c’è chi si corregge e chi no.
    Io, fra l’altro, ho lasciato Firenze da quando avevo due anni, quindi di altri influssi ne ho presi molti: però quando c’era da emendare ho provato a emendare.

    Se dassolo è fiorentino anche tutto ciò che scrivete, e scriviamo su questo blog, lo è: qualunque giornale, anche la Padania, scrive fiorentino.

    Se invece non lo ̬ РMac(c)hiavelli parlava in altro modo Р̬ semplicemente una norma.

    Chelidon scrive::

    non credo di essere molto d’accordo, mi pare che rischiamo la rigidità normativa

    Mannò. Mica ho detto che le cose non cambino, cambiano eccome. Solamente che la norma è questa, dopodiché ognuno faccia ciò che gli pare.
    Tantopiù che, dico sempre, l’importante non è fare un errore, ma non sapere che è un errore.

    Di più – qui andiamo sul maniacale – se uno mi dice che non vuol pronunciar sède, come dice la grammatica, ma séde, perché etimologicamente conseguenze da situm, o anche centesimo, io lo stimo anche di più.
    Il punto è la consapevolezza.

    Poi, per una ragione che non c’è, ora si fa molta attenzione all’ortografia e nessuna all’ortoepia: a me sembra una cosa sciocca, tantopiù che in qualunque altra lingua noi proviamo a pronunciare nel modo più vicino a quello che percepiamo come corretto.

    Dopodiché certo, le norme cambiano – con il rammarico di chi sa che una lingua più ricca è una lingua più bella, dico anch’io lui e lei in luogo di egli ed ella.
    Ma se posso fare qualcosa perché anche tu e te non facciano la stessa fine, beh, ci provo.

  9. il punto forse è capire quando l’infrazione alla norma diventa nuova norma. ci sarebbe il capitolo per me nontoscano inesplicabile delle s intervocaliche sorde e sonore; ormai credo che nessuno pretenda più che le sorde siano quelle imperscrutabili dei toscani, ma se sbaglio correggimi. (ho capito bene, i fiorentini dicono casa con s dolce? questa mi mancava)
    certi raddoppiamenti fonosintattici ormai potrebbero essere così disusati da essere considerati non più “normali”, no?

  10. @ Giovanni Fontana:
    Macché complesso d’inferiorità, al più fate tenerezza. E confusione.
    Se parliamo d’italiano parlato, la norma la fa, guarda un po’, il parlante e voi toscani siete un po’ pochini per imporre il vostro dialetto agli altri.
    Del resto, in qualsiasi lingua, sempre nel parlato, si dicono fonemi quelli che hanno valore distintivo, ovvero mutano il significato dell’enunciato: ‘dassolo’ rispetto a ‘da solo’ non solo non distingue una cippa (come pésca e pèsca, ormai da un pezzo), rischia semmai di creare confusione con ‘d’assolo’, sintagma esistente e perfettamente grammaticale.
    A proposito di ortoepia: io cerco di avere, quando parlo italiano, una pronuncia il più possibile neutra; proprio per questo evito, consapevolmente, quelle doppie biascicate tipiche del romanesco burino che ormai spacciano per italiano in TV.

  11. Scialocco, pèsca e pésca non distinguono una cippa da un pezzo?
    a casa mia sì
    chi è il parlante che fa la norma?
    (punto per Giovanni?)

  12. Chelidon scrive::

    il punto forse è capire quando l’infrazione alla norma diventa nuova norma.

    Certamente. Dico, per esempio, “ovvero” per dire cioè.
    Le grammatiche sono un buon punto di partenza, poi è ovvio che ci sia sempre di che discuterne. E Serianni dà, come norma, dassolo, mentre qualunque dizionario accetta benissimo ovvero come cioè.

    Per dassolo c’è poi la ragione etimologica che mi sembra così forte da suggerirla come soluzione più appropriata.

    Chelidon scrive::

    certi raddoppiamenti fonosintattici ormai potrebbero essere così disusati da essere considerati non più “normali”, no?

    Beh, ma quando mai allora sono stati usati? Sono molti più ora coloro che parlano con una pronuncia corretta di quanti fossero duecento o trecento anni fa: certo, prima non sapevano neanche scrivere, ma è quel “più” che non mi convince.
    La norma è sempre stata di una minoranza.

    Chelidon scrive::

    (ho capito bene, i fiorentini dicono casa con s dolce? questa mi mancava)

    Già, lo fanno (quasi) tutti gli under 30. È un orrore.

  13. Shylock scrive::

    Se parliamo d’italiano parlato, la norma la fa, guarda un po’, il parlante e voi toscani siete un po’ pochini per imporre il vostro dialetto agli altri.

    Guarda che prima “eravamo” ancora di meno, eppure non c’è una sola parola di quello che tu hai scritto che non venga dal fiorentino.

    Shylock scrive::

    A proposito di ortoepia: io cerco di avere, quando parlo italiano, una pronuncia il più possibile neutra

    Va bene. Dì anche “che io faccio” in luogo di “che io faccia” o, a Milano, piuttosto con significato inclusivo anziché eslucivo. In quel modo hai una pronuncia neutra.
    Io guardo a ciò che è giusto, non a ciò che è neutro.

    Shylock scrive::

    oprio per questo evito, consapevolmente, quelle doppie biascicate tipiche del romanesco burino che ormai spacciano per italiano in TV.

    E il tollerante finì a far l’epuratore!
    Fra l’altro “burino” – finalmente un lemma non fiorentino! – vuol dire esattamente l’opposto di ciò che suggerisci.

  14. Giovanni Fontana scrive::

    Guarda che prima “eravamo” ancora di meno, eppure non c’è una sola parola di quello che tu hai scritto che non venga dal fiorentino.

    The operative word being ‘scritto’.
    (Ma chi è che ha i complessi, adesso?)

  15. Giovanni Fontana scrive::

    Va bene. Dì anche “che io faccio” in luogo di “che io faccia” o,[…]

    Scusa Giovanni, ma non resisto: l’imperativo di dire è _di’_ (con l’apostrofo).
    Un’altra cosa che mi ronza in testa da un po’: come mai scrivi vuoldire tutto attaccato? Mi sembra davvero strano, e non lo vedo registrato così in nessun dizionario.
    Grazie.

  16. Giovanni, ti ammiro molto quando scrivi “principî”, “proprî”, etc. (tanto da farmi mancare la mia cara vecchia tastiera spagnola che sul portatile non ho e sul fisso è stata silenziosamente rimossa dal resto della mia famiglia).
    Detto questo concordo con Shylock.

  17. da piemontese che scrive e pronuncia rigorosamente “da solo” inserisco una domanda

    quanto state scrivendo a proposito del “dassolo” vale anche per gli innumerevoli “apposto” invece si “a posto”, “avvolte” invece di “a volte”, ecc. che vedo turbinare nei forum del web?

  18. Giovanni ‘Prestige’ scrive::

    Scusa Giovanni, ma non resisto:

    Sai che questa cosa io non la capisco (perché è successo anche di recente su di un altro post): perché uno per correggere un altro dovrebbe scusarsi?
    Se mi correggi mi fai un favore, e mi aiuti a migliorare: grazie.

    Giovanni ‘Prestige’ scrive::

    l’imperativo di dire è _di’_ (con l’apostrofo).

    Questo lo disputo. È una di quelle parole attestate a metà fra mercede -> mercè e poco -> po’, per cui la grafia non è standardizzata: Serianni le ammette entrambe.

    Giovanni ‘Prestige’ scrive::

    Un’altra cosa che mi ronza in testa da un po’: come mai scrivi vuoldire tutto attaccato?

    Già. Quella è una cosa che mi porto dietro sin da bambino – non so perché percepii che si scrive attaccato – e che provo sempre a correggermi da quel tempo, ma mi balza in testa sempre attaccata: se lo noto la stacco, ma se scrivo di getto la scrivo spesso attaccata.

    Non c’è nessuna raffinata ragione etimologica o sofisticheria linguistica: è solo un errore!
    Anzi, se ti capita di leggermelo, fammelo notare.

  19. franco rivera scrive::

    quanto state scrivendo a proposito del “dassolo” vale anche per gli innumerevoli “apposto” invece si “a posto”, “avvolte” invece di “a volte”, ecc. che vedo turbinare nei forum del web?

    Sì e no. Nel senso che – nella pronuncia – dopo “a” si raddoppia, per ragioni etimologiche (e difatti le parole composte si scrivono con due consonanti successive: apposta, assalire, etc) ma quelle che nello scritto non sono attestate, a posto, a volte (avvolte, dalla stessa radice, vuol dire un’altra cosa), etc non si possono scrivere tutte attaccate.

    Ovviamente “non si possono” in un documento ufficiale, poi ognuno scrive come gli pare, e se vuole ricalcare il modo di pronunciarle ha senso dire: “la maestra mi ha detto «vaiapposto!»”.

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