Qualche foto – Burkina Faso tre

La Piazza delle Nazioni Unite, uno dei crocevia più importanti di Ouaga:

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Uno scorcio tipico e caratteristico delle vie secondarie:

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Questo ruscello è usato anche come scarico:

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Qui le donne sono molto più libere di quelle nei paesi arabi, mutilazioni genitali femminili a parte, e tutte – o quasi – hanno un motorino:

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D’altronde è dall’Africa che viene, no?

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Un pasto locale, il pollo alla banana. È anche buono:

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E infine quello che qui è un sigillo di garanzia:

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Ho recuperato il bagaglio – Burkina Faso due

Voi non lo sapevate, ma all’aeroporto di Ouagadougou non avevo più ritrovato il mio bagaglio: in realtà era colpa dell’Air Algerie, ché non l’aveva fatto partire, e l’avevo recuperato due giorni dopo all’arrivo del successivo volo da Algeri.

L’aeroporto Internazionale di Ouagadougou è qualcosa da raccontare, sarebbe da farci un sacco di foto se non fossi così imbranato con le foto:

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Direi che la descrizione migliore è la precisa via di mezzo fra una mensa scolastica di qualche istituto fatiscente e un saloon del Far West. Ci sono dei cupolotti, dove fai il visto: al di là della porta da locanda, c’è un locale solo dove l’unico rullo per i bagagli viene azionato appena dopo l’arrivo dell’aereo: non c’è nessun giro da fare, un omino raccoglie i bagagli dall’aereo li mette sul camioncino e arriva davanti al rullo che passa lì dietro, all’aria aperta. Dall’altra parte di una parete di cartongesso ci siamo noi a raccogliere i bagagli, se sono già arrivati. Lì, in quell’ambiente, c’è un anfratto completamente fuori traiettoria, di quelli in cui solitamente c’è un piccolo bagno di servizio con un grande cartello con scritto “Douane”. Ma chiuso, non c’è nessuno, è un vicolo cieco.

Ci sono tornato due giorni dopo, per il bagaglio, voleva venire pure un amico: no, sono stati inflessibili, all’entrata hanno fatto varcare la soglia solo a me. Poi lui è entrato dalle partenze, ha fatto un giro, e ci siamo ritrovati un metro più in là. Davanti al mio bagaglio c’era un omino della sicurezza, accertatosi che fossi il proprietario me l’ha consegnato.

Vi volevo ringraziare…

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Cartello trovato a una fermata del trenino da Nuovo Salario a Fiumicino nel giorno della mia partenza. Ho paura che sia un Giovanni che ha fatto una brutta fine.

Nel frattempo ho trovato una connessione a internet più stabile, dovrei essere in grado di scrivere qualcosina in più!

Lavarsi i denti con l’acqua minerale – Burkina Faso uno

Questo primo post dal Burkina Faso rischia di essere molto retorico, ho provato a tagliarlo asciutto asciutto ma non m’è riuscito: mi si perdoni l’indugiarci, almeno oggi.

L’immagine è quella lì, davvero “noi” e “loro”. Ed è anche molto più semplice delle divisioni che ci troviamo a fare, per rendere comprensibile il mondo, nei nostri discorsi quotidiani: proletarî americani immigrati, dove in fondo – e in una qualche misura – siamo tutti un po’ proletarî, siamo tutti un po’ americani, tutti un po’ immigrati.
Qui no, è facile e brutale. Noi, i bianchi. Loro i neri.

Ci sono gli hotel per il mondo che non è di qui, e sono di un lusso sfarzoso, delle volte ostentato, che si ferma sul portone d’ingresso. Dove ci sono delle guardie, a tenere lontano lo stuolo di mendicanti che si affastella ai finestrini di ogni macchinone che parte, a chiedere l’elemosina.
All’entrata del fortino ci sono le guardie, a tenere fuori, a spingere lontano la povertà.
Loro – i neri – per entrare negli alberghi devono essere invitati, e ci entrano con un cartellino appuntato al petto con scritto “visiteur”, ché non insospettiscano.
Tu, per diritto di pelle – smaccatamente solo e soltanto per ordinamento cutaneo – a cui le guardie aprono la porta, per non farti fare la fatica di accompagnarla. E alla quinta o alla sesta volta che ci passi, avanti e indietro, finisci persino per dimenticarti di dire almeno “merci”.

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L’immagine è quella lì, dicevo, e cioè che ti lavi i denti con l’acqua minerale. L’attitudine è fatta di cose piccole, questa quella che – scioccamente – ha colpito me. Come chiamarla? Sì, molto banalmente “ingiustizia”, e crasi di tutto il solco delle disparità: là fuori anche quella del rubinetto – non per lavarsi, ma per bere – manca.
Ma le alternative non ci sono: mia collega se n’è scordata, quattro giorni fa, ha usato l’acqua del rubinetto con lo spazzolino ed è tornata a casa – rimpatriata – con una malattia di qui, il Dheng, per fortuna non grave.
(Edit del 9/11: la collega ci tiene a specificare che, come già scritto nei commenti, avevo capito male – è stata una zanzara)
(Nuovo edit 9/11: ho capito l’origine dell’incomprensione, era stato un altro collega – a Roma – a parlare di un’altra collega ancora che, tornata in Italia, si era sentita male, ma non con la dengue)

Ed è lo stesso: non puoi andare in giro da solo. Ci sono le guardie e gli autisti, invariabilmente. Abbiamo una casa, dove lavoriamo e gestiamo l’organizzazione, fuori dalla casa stazionano un paio di guardiani. Ogni volta che andiamo in qualche albergo/ristorante/salaconferenza ci accompagna l’autista. Per fare 500 mt a piedi l’autista parcheggia la macchina e ci accompagna camminando. Avere, possedere, autisti e guardie ti fa sentire come il lavarsi i denti con l’acqua minerale: ma, allo stesso modo, qual è l’alternativa? Forse soltanto chiudere gli occhi.
Meglio di no.

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Qui una foto presa male (ingrandendola ci si entra meglio dentro):

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Voglio pubblicare un libro

Uhm, forse questa cosa dovevo scriverla la settimana scorsa, quando un sacco di gente nuova è capitata sul mio blog, ma – e lo dico senza alcun compiacimento – il marketing non è il mio forte.

Dunque, io ho scritto questo libro, quando ero in Palestina. È un racconto dei miei giorni là. Chi mi ha seguito, al tempo, ne conosce buona parte. Poi l’ho aggiustato per bene, ci ho aggiunto delle cose, l’ho rivisto: secondo me è venuto bene, c’è molto del mio meglio.

Ora, l’ho quasi finito e lo vorrei pubblicare. Però non so come si fa. Allora io, intanto, metto qua un bell’estratto di venti pagine che secondo me riassume bene tutto il libro, perché c’è tutto: i bambini, la politica, la quotidianeità, e il conflitto arabo-israeliano. Anche io, un po’.

Se passa uno che fa l’editore, gli dà un’occhiata. Tutti gli altri, se hanno voglia, gli danno una letta e mi scrivono critiche e consigli: tanto il giorno che lo pubblico, voglio metterlo disponibile anche qui, gratis.
C’era anche un giornalista importante che era capitato sul mio blog al tempo della Guerra a Gaza manifestando apprezzamento, al quale avevo chiesto di farmi la prefazione, e che forse mi ha detto di sì.

Il libro lo trovate qui:
DISTANTI SALUTI, duecento racconti dalla Palestina

Lunedì degli aneddoti – XVI – Gagarin, patente e libretto

Quando mi capita di leggere un aneddoto carino, da qualche parte, me lo appunto per non dimenticarlo: così ora ho un piccolo mazzo di aneddoti che ogni tanto racconto. Pensavo di farci un libro, un giorno, ma forse è più carino pubblicarne uno, ogni tanto, sul blog. Questo ‘ogni tanto’ sarà ogni lunedì.

Gagarin, patente e libretto

«La Terra è blu, è stupenda», Yuri Gagarin la disse veramente questa frase quando divenne il primo uomo a orbitare intorno al nostro pianeta. Quell’altra, «non vedo nessun Dio quassù», gliela mise in bocca Krusciov, poi, anche se l’effetto retorico c’era.
Quella mattina lo svegliarono e gli dissero «ehi bello, oggi vai nello spazio». Chi non vorrebbe essere svegliato da una notizia del genere? Beh, non tutti, perché le possibilità che la missione andasse in porto erano cinquanta e cinquanta, e se fosse saltato fuori croce, come dicono nei western, l’astronauta c’avrebbe lasciato le penne.
Lyndon Johnson, che sarebbe diventato presidente degli Stati Uniti di lì a poco, diceva che non bisogna mai rifiutare due cose: un invito a cena, e un’occasione per fare pipì.
Un consiglio che sarebbe servito anche a Gagarin, quella volta, perché il suo bisogno fece registrare il primo imprevisto in una missione così delicata: Gagarin si fermò, prima di raggiungere la sua capsula, per fare la pipì. Una sosta, divenuta un rito ancora oggi praticato da ciascun astronauta russo in partenza.
Così, a 27 anni, Yuri Gagarin diventò il primo uomo ad andare nello spazio, un’ora e mezzo di volo e un atterraggio non proprio previsto, in un campo, dove dovette convincere due contadini di non essere un nemico venuto dallo spazio. Ci si misero, poi, anche dei soldati, che non lo riconobbero e gli chiesero i documenti.
Alla fine ce la fece, Gagarin, ad avere il meritato tripudio, venne accoltò a Mosca come un paladino al quale furono tributati tutti gli onori, fra cui un pilota personale – Seregin – che doveva tutelare i voli dell’astronauta per garantirne l’incolumità e preservare così la vita dell’eroe nazionale.
L’ironia, o la cattiveria, della sorte raccontano che l’espediente non funzionò tanto bene perché fu proprio un volo pilotato da Seregin, sette anni più tardi, a schiantarsi al suolo mettendo fine alla vita propria e a quella di Gagarin.

[Qui il primo: Brutti e liberi qui il secondo: Grande Raccordo Anulare qui il terzo: Il caso Plutone qui il quarto: I frocioni qui il quinto: Comunisti qui il sesto: La rettorica qui il settimo: Rockall qui l’ottavo: Compagno dove sei? qui il nono: La guerra del Fútbol qui il decimo: Babbo Natale esiste qui l’undicesimo: Caravaggio bruciava di rabbia – qui il dodicesimo: Salvato due volte – qui il tredicesimo: lo sconosciuto che salvò il mondo qui il quattordicesimo: Il barile si ferma qui qui il quindicesimo: Servizî segretissimi]

Vuoi indicare un aneddoto per un prossimo lunedì? Segnalamelo.