Ovviamente Daniela Santanché in quanto essere umano è un pretesto.
Oggi Daniela Santanché è andata a fare una piazzata davanti a una moschea, sembra, cercando di togliere di forza il velo alle donne che passavano. È possibile che quando la destra si appropria delle battaglie della sinistra, lo faccia con i modi della destra.
In tutto questo ci sono dentro decine di paradossi: mi domando con quale titolarità una persona che – in campagna elettorale – a qualunque domanda (le case, il welfare, l’occupazione) rispondeva con grida «prima gli ITALIANI!» possa dire di voler difendere quelle donne dalle vessazioni dei loro mariti o fratelli. Prima gli italiani un cazzo, prima le persone che vengono discriminate, che vivano in Mali o in Italia, che siano marocchine o italiane.
Effettivamente io contesto spesso l’ignavia connivente della sinistra su questi temi, il fatto che i progressisti si siano dimenticati del progresso; ma c’è tutta un’area politica che fa dell’equivoco opposto una linea. Se i fascisti vecchio stampo (Movimento sociale, fiamma tricolore, fronte nazionale) sia per antisemitismo che per antiamericanismo, oltre che per una fascinazione per l’ordinamento tradizionale del nazionalismo islamico, conservano il loro menefreghismo (non a caso) per le donne e gli omosessuali nell’Islam, una parte di destra “moderata”, talvolta addirittura la Lega (il partito dell’Egoismo Disgustoso) combatte il multiculturalismo con la stessa arma spuntata.
Perché l’identitarismo con cui Santanché combatte il multiculturalismo, è il riflesso dello stesso concetto. L’altra faccia della medaglia dell’assunto che ogni cultura ha valore a casa propria, e così noi abbiamo più diritti nel nostro Paese. Lo sciocco argomento con cui Santanchè dice «a casa nostra decidiamo noi» è, implicitamente, l’uguale inveterata domanda multiculturalista «chi sei tu per dire come deve vivere una persona in Arabia Saudita?».
Si tratta, in realtà, del medesimo macroscopico e razzista errore del pensare che i diritti umani, quelli delle donne, e quelli degli omosessuali, siano “concetti occidentali”, anziché patrimonio di tutti, e che – per ragioni che possiamo indagare, ma non certo genetiche – alcuni ci siano arrivati prima di altri.
In fondo quello che interessa a queste persone è avere i burka fuori dallo sguardo, che queste cose si facciano, ma si facciano lontane dal proprio Suolo sacro. Non è un caso che, spesso, si senta dire «se vogliono fare di queste cose alle loro donne, rimandiamoli a casa loro»: già su quel “loro” ci sarebbe da scrivere un’invettiva chilometrica, ma – al di là di quello – la domanda è: e quando sono “a casa loro” che fanno? Tratteranno le donne meglio di quello che avrebbero fatto in Occidente? Casomai il contrario.
Così, Santanchè combatte un comunitarismo terribile e perncicioso con un altro comunitarismo altrettanto – in essenza – conservatore; difende una cultura che ha fatto le proprie conquiste proprio a scapito delle persone che – nel tempo che fu – la pensavano come lei, quelle che difendono la propria cultura in quanto status quo. L’accartocciamento sui proprî-valori per cui i mussulmani che mettono gli omosessuali fuori legge sono barbari, ma – figuriamoci – se gli stessi devono avere il diritto di sposarsi!
Se Santanché può andare in giro in minigonna e supertruccata – e, se a lei piace, fa benissimo a farlo – è perché ci sono state persone che hanno sfidato quelli che – proprio come lei ora – vedevano nella cristallizzazione della propria società in quel momento temporale, il loro fine e il migliore dei mondi possibili.
La Storia, intanto e per fortuna, va avanti.