Vi prego di non rispondermi che se penso questo allora dovrei pensare anche quest’altro, perché è molto probabile che vi dica «sì, difatti penso anche questo», e comunque non è un argomento: convincetemi che sbaglio.
Io non ho ancora trovato una ragione decente, una che sia una, flebile, smilza, incoerente per non fare la cosa più semplice del mondo: frontiere aperte.
Si fa un gran parlare di rifugiati, rifugiantisi, perseguitati politici, mamme incinte, ma perché ci si indigna per l’assenza di una discriminazione positiva quando quel criterio non dovrebbe proprio darsi? Ovviamente c’è sempre da lamentarsi del tanto-peggio, quando si verifichi, però mi sembra quasi che – chi ne parla – consideri esserci un livello oltre il quale bisogni essere ragionevoli, e io questo livello proprio non lo capisco.
Qual è la ragione per cui io, che sono nato in Italia, dovrei avere più diritto a risiedere e lavorare in Italia di uno, che è nato da un’altra parte, solo perché il caso l’ha fatto nascere al di là di una frontiera. Ma che discorso è?
Dice: non c’è posto. Se vogliono venire significa che il posto c’è, o ce n’è più che nel loro Paese d’origine. Una persona che si imbarchi in un viaggio simile, magari dall’Africa Centrale, un viaggio in cui quasi la metà muore, senza acqua per giorni – ne ho ascoltati più d’uno di questi racconti – viene qua perché anche quel poco che potrebbe ottenere qua, è enormemente maggiore del nulla che ha nel suo luogo natìo.
È il principio più liberale che c’è: libero scambio. Dire che non c’è posto significa dire che non vogliamo darlo, quel posto, se questo danneggerebbe anche soltanto un poco (a fronte di un vantaggio enorme per queste persone) il tenore di vita di chi entro quel confine sia nato. Che è un principio molto concreto, ma si chiama in un modo solo: egoismo.