Partire per l’Aquila

A seguito di questo post, molte persone m’hanno chiesto qualche informazione in più, su come andare a dare una mano, di quelle che avevo riferito.
Per capire come funziona, e chi parte – appunto – è molto utile il post di Tommaso C. Lì c’è tutto quanto di ufficiale si possa reperire.

Poi vi dico quello che ho capito io: tutti dicono di non partire da soli. Da una parte ha senso, dall’altra un po’ meno. Vi spiego. Quando invece si sente dire che non c’è bisogno di persone che diano una mano, perché i ranghi sono al completo e le persone sufficienti – beh – questo non è vero. Anche perché quattro mani sono sempre meglio di due, se organizzate. Veniamo all’organizzazione, quindi.

Ora come ora, tutte le associazioni, Croce Rossa, Modavi, etc prendono nomi che saranno utili (?) in un futuro chissà quanto lontano. Sicuramente, questo mi è stato spiegato, in questi casi è molto più facile partire se avete già un gruppo, piuttosto che come singoli. Se chiamate il Modavi e dite «siamo otto ragazzi con una discreta esperienza in montaggio, smontaggio tende, etc», avrete sicuramente la priorità rispetto ai singoli. È vero, però, che le tende per gli sfollati, come del resto i campi, sono già tutte costruite: non è di quello che c’è bisogno, ora.

Quindi cosa fare? Bisogna farla un po’ all’italiana: cercate l’associazione di Protezione Civile più vicina. Purtroppo le pratiche di iscrizione impiegano molto tempo (anche se uno ha già lavorato con la Protezione Civile), ed è per questo che ci sono queste liste d’attesa. Se invece di telefonare per essere messi in lista d’attesa, andate lì, fate due chiacchiere, vi spiegano che è possibilissimo andare come privati cittadini, che ci sono già un sacco di ragazzi che lo stanno facendo. Il punto è capire dove, perché ovviamente a seconda di quello che uno sa fare, e a seconda del momento in cui può dare una mano, le necessità potrebbero essere diverse.

È qui che serve l’aiuto dell’associazione di cui sopra, chiedete se vi sanno dire dov’è che c’è necessità: l’importante è essere introdotti, poi se si va come cittadini privati, e dopo un mese arriva la copertura della Protezione Civile, cambia poco. I funzionarî di quelle associazioni vanno e vengono dai luoghi del terremoto a distanza di pochi giorni, così se chiedete loro «la prossima volta che passi nei varî campi, chiedi un po’ dove c’è bisogno di una mano?». Quello torna e vi dice: «guarda, al campo x ci sarebbe bisogno di uno che faccia questo, etc». A quanto ho capito già moltissimi sono partiti così, ufficialmente “privati cittadini di buona volontà” ma, in realtà, inviati dalla Protezione Civile. La burocrazia ci impiega sempre un po’ più di tempo.

Per quanto riguarda me, domani sera so quando parto.

Simone e Alessandra

Oggi ero Ar mare de Roma, e c’era una scritta che diceva “Ti amo… dolce essenza che inebria la mia vita. Simo + Ale”, così mi son chiesto se fossero Simone e Alessandra, o Simona e Alessandro (oppure ancora Simona e Alessandra, o Simone e Alessandro).

E dunque, preso dal dubbio vivido, ho visto che c’erano due che giocavano a racchettoni, lì davanti, gli ho posto la domanda. Loro, per nulla stupiti, si sono guardati e lui mi ha risposto: «beh, Simone e Alessandra, perché io mi chiamo Simone, e lei Alessandra». «Ma siete voi che l’avete scritto?». «No».

La scritta sul muro, pure col suo forzamento delle convenzioni, è diventata a sua volta una convenzione, e oramai non raggiunge nessun tipo d’originalità (tranne quello lì, o quella lì, che scrisse “io e te quattro metri sopra al cielo, perché a tre metri ci sta troppa gente”).

Ma piazzarsi davanti a una scritta, fatta da qualcun altro, mantiene un che di sovversivo. Ho voluto credere che si fossero messi lì per quello.

Ho sognato un sogno

Da vedere assolutamente; la cosa più commovente. Il pregiudizio. Le apparenze. Svegliarsi.

Una improbabile signora si affaccia sul palco di quello che è una specie di X-Factor inglese. Brutta, impacciata, goffa. Anche un po’ scemotta, sembra. E ancora brutta, di una bruttezza non particolare. Per questo non suscita neanche la compassione che concediamo ai casi umani. Ha tutti contro, pronti a sbeffeggiarla. Più che pronti, lo stanno già facendo, mentre si presenta, per come si presenta.

Quando annuncia di voler cantare, e di voler cantare “I dreamed a dream” dal musical Les Miserables – una canzone enormemente più che impegnativa, e di asperrima esecuzione – perfino i cuori più cinici iniziano a preoccuparsi per lei, per la figuraccia che farà. «Vi prego, vi prego, state zitti…» pensa chiunque, rivolgendosi al pubblico. Non la offendete, non la denigrate: lo è un caso umano.

E poi lei comincia a cantare:

Grazissimo a River.

Rubé

Oggi c’è la Parigi-Rubaix (di cui sempre la magistrale spiegazione di Marco B), unica corsa – forse – che vale sempre la pena vedere in televisione. In qualunque altro tracciato, anche un Alpe D’Huez o una Milano Sanremo, una salitona, una corsa ondulata può sempre succedere qualcosa perché alla fine la gara ti deluda, che diventi noiosa. La Rubé no. È una gara a eliminazione, dove le regole valide sugli altri tracciati non si applicano. Se uno ne ha vista anche una sola, capisce cosa intendo. Direi che il concetto che riassume meglio questa particolarità è il seguente: non esistono fughe. Neanche quando uno è in fuga, alla Parigi-Rubaix, uno è davvero in fuga. Sono gli altri che sono in ritardo, non sei tu che stai scappando.

La Rubaix viene, come al solito, una settimana dopo il Giro delle Fiandre – in quella che è chiamata la Settimana Santa delle Ardenne: fatta di tante altre corse minori (si fa per dire), a cominciare dalla Gand-Wevelgen.

Siccome mi rimproverano di non scrivere più di ciclismo, provo a discolparmi così: il Giro delle Fiandre l’ha vinto Devolder, l’anno scorso lo vinse Devolder, quindi rimando a quel bel post, che m’era così piaciuto scrivere.

Se ne vogliono, eccome

Il reparto di rianimazione di un ospedale è un luogo, direi propriamente un ecosistema, strano. Dopo tre settimane di frequentazione grosso modo quotidiana posso dire di essermi fatto un’idea.
È strano davvero, perché è il contrario di quello che uno s’aspetterebbe. Si è tutti una famiglia, in uno dei pochi sensi genuini di questo termine. Arriva uno nuovo, diventa parte.

In rianimazione si ride, tanto, tantissimo. Per esorcizzare, per mandare via, la paura, l’attesa, la noia, sopratutto quell’atmosfera lì. Ovviamente la vita di questi branchi, vicini e lontani, è nelle file di sedie appena fuori dal reparto.

Si piange solo il primo giorno. In un modo sguaiato, che può capitare soltanto per un lutto (o per amore). Un modo senza pudore, senza dominio. Soprattutto trascurando completamente quello che pensano tutti gli altri. Una persona entra lì dentro per uscirne chissà quando, e chissà se viva. Chiunque l’accompagna, la prima volta, è in lacrime. Come non si vedono da nessun’altra parte, tutti gli altri – che conoscono la rianimazione – guardano, non fanno finta di niente. Chi è questo nuovo “compagno”? Non c’è censura sociale, se non fossero drammatiche quelle urla e quei pianti sarebbero molto belle.

Poi iniziano il secondo giorno, e il terzo, e il quarto. Sempre alla stessa ora, l’orario di visita. Che incomincia sempre un po’ più tardi dell’orario ufficiale – perché gli infermieri hanno sempre qualcosa da fare – ma finisce sempre molto più tardi dell’orario ufficiale – perché gli infermieri sono esseri umani. E possono entrare poche persone alla volta, così tutti gli altri stano fuori e chaicchierano. Spesso ridono, tante volte ridono. Ti colpisce, è un po’ meno bello, perché sono sorriso di plastica, e si vede. Ma è tanto più umano.

E quelli che il giorno prima avevi intravisto, dagli angoli dei tuoi occhi pieni di lacrime, diventano come incidentali compagni di viaggio. C’è quella cosa che dà tanto sollievo, nel raccontarsi del come-è-successo: che è diverso da ogni altro posto. Non c’è quel peso di spiegarlo, quel peso di non cercare di far sentire un peso – ulteriore – alle persone che ti chiedono: «come mai sei qui?» o «vai in ospedale? Perché».
Fra la gente di quel gruppo non c’è bisogno di spiegarselo: tutti sanno perché sei lì.

E c’è tanta umanità, non solo nell’infermiere napoletano che ti dice «piccirullo, sctai tranquillo, chianu chianu tutto va a posto», ma nel discutere di politica, di calcio, di economia e dei presunti complotti della politica, del calcio, dell’economia. Perché bisogna anche respirare.

Poi, ogni tanto, uno ce la fa. Si saluta, e tutti sono sinceramente contenti che quell’altro, di cui seguivano i minimi progressi («oggi ha respirato autonomamente per 5 minuti!» «accidenti, bene!») ogni volta che si presentavano o un persona emotivamente condizionata li vagheggiava, ce l’abbia fatta. Gli si augura una buona vita, e tanto tanto bene, in un modo onesto e innocente, anche se non li si rivedrà più.

Credo che penserò a quei pianti – e a tutto questo – le volte che sentirò dire che «nel mondo c’è tanto odio e nessuno si vuole bene». Accidenti se sì.

*

Patrizia ha lasciato oggi rianimazione, ed è stata trasferita oggi nel reparto di neurologia: è un grande passo avanti. La tac non ha riscontrato danni permanenti, anche se la riabilitazione potrebbe durare anni, ma già questo era inimmaginabile fino a dieci giorni fa. C’è luce.

All’italiana, brava gente?

Francesco, qualche giorno fa, vedeva il bicchiere tutto vuoto:

All’italiana: Mi dicono che ci sono associazioni di volontariato che stanno rimandando indietro i volontari che vorrebbero partire oggi per l’Abruzzo – sarebbero troppi – mentre invece non hanno nessuno o quasi dal 18 aprile in poi. Mi raccomando, non ci facciamo riconoscere.

È un paio di giorni che ci penso, e io vedo davvero tanto di positivo. Innanzitutto non si può sapere quanti volontari ci saranno dal 18 aprile in poi, si possono fare soltanto previsioni, ed effettivamente è facile che molti se ne disinteressino quando l’onda emotiva sarà calata. Anche perché, chissà, uno si mette in lista d’attesa oggi, magari lo chiamano fra un mese quando avrà preso altri impegni. Però tanti più sono ora, tanti più (anche se meno) saranno dopo.

E questa è una cosa che fa bene, e commuove. Nemmeno penso che sia una prerogativa italiana, come da titolo: leggevo da qualche parte che un americano su tre (uno su tre, se siamo in tre per strada uno di questi l’ha fatto!) ha donato qualcosa per le vittime dello tsunami, qualche anno fa. È una cifra enorme, se ci pensate, escludendo tutto coloro che volevano farlo, e non l’hanno fatto, quelli che volevano poi non avevano la carta di credito giusta, quelli che si ora lo faccio, hanno sempre rimandato e non l’hanno più fatto.
È una cifra enorme.

E questa è una testimonianza che il mondo è migliore, ora, di tempo fa. E che la pulsione morale – lo zeitgeist morale, qualcuno lo chiamerebbe – è avanzato: come in Europa succede da centinaia d’anni.
Avevo letto un po’ di statistiche sul volontariato, su questo libro, ed è un fenomeno che si è praticamente formato negli ultimi vent’anni: prima non esisteva, ad eccezione di casi particolarissimi. L’unico vero volontariato era, un tempo, soltanto all’interno del nucleo familiare. Una specie di mutuo soccorso (com’è in Palestina, per dire) basato sui legami di sangue.

Ora, invece, quasi tutti hanno una mano o un piede impegnati nel volontariato, chi dà una mano – appunto – chi dà qualche soldo, chi dà qualche locale, ognuno a modo suo.

Specie fra i giovani. E questo mi conferma una volta di più quello che penso ogni volta che sento parlare un nostalgico del ’68 (neanche di quel periodo: ma di quelle lotte!). Lo dico fuori dai denti – sapendo d’aver molti lettori di quella generazione – noi, siamo meglio. Ed è un noi per nulla orgoglioso, incidentalmente si capita in una generazione, e chi verrà anche dopo farà un mondo ancora migliore, e così via.

Sapete? Quando ho proposto ai miei amici d’andare a provare a dare una mano in Abruzzo, più della metà (la metà!) ci aveva già pensato. Anche persone da cui non me lo sarei aspettato, ci avevano pensato: e altri si sono detti disponibili o entusiasti. A me ha stupito davvero quanto fosse un sentimento comune, normale, scontato.

Pro domo sua

Non so se ha a che fare con il terremoro, ma a giudicare dalla tempistica… Qualcuno ha piazzato una tenda nel giardino del mio palazzo:

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Un aeroporto in mare

Molte volte mi sono trovato a spiegare l’assurdità della situazione attuale, fra occupazione e non occupazione, Palestina che c’è e Palestina che non c’è, dove possono andare i palestinesi, dove possono andare gli israeliani e dove nessuno dei due. E la verità, quella più semplice da spiegare, è che a Oslo ’94-’96 c’era una vera speranza di pace, ci furono delle concessioni, e degli accordi. E degli impegni. Quegli impegni dovevano essere rispettati, e nessuno li rispettò (per la precisione  i palestinesi rispettarono lo 0,00% e gli israeliani, forse, lo 001%), cosicché quella situazione che doveva essere provvisoria, e trasferire – nei successivi 20 anni – via via nuovi territorî si è cristallizzata, e l’attuale Autorità Nazionale Palestinese, sembra una sorta di arcipelago di isole. Certo, mai avrei pensato che qualcuno la rappresentasse per davvero così:

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p.s. Quell’aeroporto, in mezzo al mare come da titolo, è quello (israeliano, ma su territorio palestinese) di Atarot. Sarebbe l’aeroporto di Gerusalemme, ma è chiuso da anni, perché nel raggio dei potenziali missili palestinesi.

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