Alimentari Che Guevara – Diario dalla Palestina 159
Anzi, Givara, come lo pronunciano loro e come è scritto in arabo.
L’altro lato:
poveri i bambini che finiscono nella squadra avversaria
Non ci avevo già pensato. Bella considerazione. È un po’ come quando si dice che è la legge a fare costume e buone abitudini, e non viceversa: si parli di diritti delle donne, o di fumatori nei locali pubblici.
p.s. Certo che – dopo essermi imposto la regola di accettare o chiedere l’amicizia soltanto di coloro che ho visto in faccia – ora mi verrebbe voglia di chiedere l’amicizia a Daria Bignardi, per vedere se ho la faccia da pirla o se il mio nome le ispira qualcosa…
p.p.s Questo post parla di Facebook! Contenti?
Legalizzarla? Piantatela (nel Negev) – Diario dalla Palestina 158
Oggi sono andato a chiedere il rimborso per la bici, domani racconto, indovinate come è andata a finire?
Intanto, ho scoperto un personaggio fantastico: purtroppo l’articolo dell’AFP mi è giunto per email, e non sono riuscito a ritrovarlo su internet, è probabile che bisogni essere registrati (ho incollato su word l’originale per chi sa il francese, qui invece c’è un abbozzo in inglese, ma manca la parte più bella). Quindi ve lo racconto io.
Ale Yarok è un partitino israeliano liberale e ambientalista, ma soprattutto a favore della legalizzazione delle droghe leggere (se aprite il sito troverete erba e foglie di marijuana ovunque). Già per questo, da moderatamente contrario al consumo ma immoderatamente favorevole alla legalizzazione, mi starebbero simpatici: ma c’è molto di più – hanno a cuore la sicurezza d’Israele!
Ecco l’impeccabile ragionamento di Gil Kopatch, attuale leader del partito: sembra che mentre l’intervistatore della Agence France-Presse lo intervistava, questi stesse fumandosi una canna: «Sai da dove viene questa roba?» domanda all’intervistatore «da Hamas e Hizballah», «da noi è illegale, e loro la forniscono di contrabbando, così coi soldi che gli diamo ci sparano i missili in testa».
«Invece se fosse legale» dice sempre lui «la coltiveremmo da soli sulle colline del Negev». E tutta la marijuana che ora vendono in Israele dove andrebbe? «beh, a quel punto non potrebbero far altro che consumarla, e se la fumano stanno calmi. Un arabo buono è un arabo calmo!» «È questa la mia visione della sicurezza», conclude.
Dice che alle ultime elezioni gli mancarono novemila voti per entrare in parlamento, chissà che quest’anno non ce la faccia.
Grandi notizie – Diario dalla Palestina 157
Mi sono fatto la barba.
Pulizie – Diario dalla Palestina 156
Il modo di fare le pulizie, qui in Palestina, è particolare: si buttano dei grandi secchi d’acqua per terra, e poi si gioca a buttare l’acqua dentro le fessure. Metteteci i bambini, un bambino un po’ cresciuto, e un’educatrice disperata, e il risultato è questo:
Questo:
Ma soprattutto questo:
p.s. I bambini, aggeggiandoci, mi hanno rimesso la data in sovraimpressione sulla macchina fotografica. È assurdo, non riesco a toglierla: ho provato a rifarceli aggeggiare, ma non ha funzionato…
Che fosse una truffa, si capiva dall’apostrofo.
Non ho intenzione di tornare a casa tua da soldato. Ma sarò lieto di sedere con te, da ospite, sul tuo bellissimo balcone, e bere un tè, insaporito con la salvia del tuo giardino.
L’esperienza qui mi persuade che quelli che la pensano come Yshai Goldplam, in Israele, non siano la maggioranza; ma la lettera che questo riservista israeliano ha scritto al palestinese di cui ha occupato la casa durante la guerra a Gaza è molto bella.
Mi sapete un tipo piuttosto equilibrato, credo, sulla gran parte delle questioni. Permettetemene una, quindi, e cioè di bandire da questo blog una fesserìa che proprio non riesco a reggere: quella storia per cui l’ateismo sarebbe «un’altra religione». Arrivo fino a capire, con tanti distinguo, che si possa estendere la definizione di “religione” a un’ideologia, il comunismo è l’esempio più comune, perché può portare con sé un’adesione fideistica propria delle religioni. Ma l’ateismo è, per definizione, valido fino a prova contraria.
Ancor più inspiegabile è che spesso arrivino a definire l’ateismo come una religione, coloro che in Dio ci credono davvero, e che quindi dovrebbero avere un’alta opinione del concetto di religione, e non usarlo come categoria screditante il pensiero altrui.
Secondo me, come ascoltai una volta: «definire l’ateismo una religione è come definire il non collezionare francobolli un hobby». Non so se era sua, ma aveva ragione.
Qualche giorno fa mi aveva appassionato la discussione seguita a questo post, nei successivi commenti. Ci sono due motivi per cui seguo con propensione un blog: o perché mi insegna davvero qualcosa, o perché il tenutario è un amico. Con buona approssimazione posso dire che i blog dei due discutenti siano gli unici che rientrano in entrambe le categorie, che leggerei anche se non fossero amici, e la cui (diversa) amicizia mi pregia. Quindi capirete perché del surplus di interesse.
Di mestiere Francesco pensa e scrive, mentre Marco insegna a pensare, e questa differenza si vede. Se seguite la discussione avrete l’impressione che abbia ragione Francesco, ma poi leggerete la risposta di Marco e cambierete idea, convincendovi degli argomenti di quest’ultimo; e così sarà per la successiva risposta di Francesco, e quella poi di Marco. O almeno così è stato per me, nonostante fossero temi su cui ognuno di noi – e io – ha pensato mille volte, anche creandosi in testa le varie fattispecie. Ed è una cosa abbastanza rara, devo dire, perché solitamente quando si segue una discussione si tende ad accogliere l’opinione che è più vicina alla nostra di partenza («dài, che gliele stai dando!») e screditare quella di chi ci è più lontano («ma guarda ora cosa si è inventato questo: ci deve essere un modo per uscirne»). L’idea che mi sono fatto alla fine è che l’argomento di Francesco sia al tempo stesso più facile e più stabile, quello di Marco meno approssimato. Penso anche che Francesco abbia più ragioni di quante non ne abbia scritte. Questo per la cronaca.
Quello che però avevo a cuore, e mi preme davvero perché è uno dei fondamenti di tutto quello che penso, è non lasciare impunito un concetto che un retropensiero di Marco ha insinuato: ovvero che ci sia una differenza sostanziale fra fare del male, e lasciare che questo sia fatto. Che uccidere una persona con le proprie mani è peggio che lasciare che due persone siano uccise, quando si abbiano gli strumenti per impedirlo.
Così Marco, se non confondo, tiene a salvaguardare l’altrui e la propria coscienza dal commettere ciò ch’egli considera un omicidio (mi perdoni Marco, l’approssimazione), come se questo fosse il problema. Come se per chi la pensa come lui il dolore non siano le migliaia di aborti che si commetono quotidianamente, ma l’importanza del non causarlo – o esserne partecipi – in prima persona. L’obiezione secondo la quale se-tutti-facessero-come-faccio-io mi sembra non reggere alla prova pratica di un mondo spesso così inclemente da offrire alternative peggiori, e non migliori. Perché, circostanza della quale si rammarica la testata di Francesco, purtroppo tutto il mondo non fa quello che faremmo noi. Possiamo fare l’esempio dell’aborto clandestino perché siamo in argomento, ma potrebbe valere molto bene l’esempio posto qui da un mio commentatore, in tutt’altro ambito.
Sono abbastanza convinto che Marco non la pensi apertamente così, che posto di fronte alla concretezza del decidere se causare un aborto o assistere a due, opterebbe per la prima soluzione, e in parte corregge anche il tiro quando parla della pillola abortiva e di come per lui sarebbe più importante sollevare un dibattito (anche se questo portasse all’apertura totale alla pillola in questone?) piuttosto che le conseguenze nelle quali incapperebbe come farmacista fuorilegge; ma secondo me è una cosa su cui dovremmo riflettere bene, questa stramba idea per cui non sporcarsi le mani sia una cosa lodevole.
Qualche anno fa pensavo che non avrei fatto entrare una donna velata in casa mia perché – dicevo – a casa mia donne e uomini hanno lo stesso valore. Ferma restando la legittimità di tale principio fra le 4 mura che io posseggo, mi son ritrovato a pensare che quello fosse soltanto un vezzo narcisistico per autocompiacermi di quanto fossi giusto e quanto avessi a cuore la parità dei sessi: qualche anno dopo, senza avere in nulla cambiato idea rispetto a quell’orrendo simbolo di sottomissione – e senza scontare a lei nessuno dei miei rimbrotti – ho lavorato per mesi in Palestina a fianco di una donna velata.
Insomma, secondo me sopravvalutiamo l’importanza della nostra coscienza, della pulizia di essa, e di quanto questa incida veramente sulle sorti del mondo. Considerare la propria coscienza come il campo della Vera Battaglia fra le idee giuste e quelle sbagliate è bambinesco e arrogante: l’importanza di quelle battaglie si fa là fuori, nel mondo. Dove in una delle tante risse terrose fra limacciosi principî a cui la vita ci costringe, e che la vita ci regala, alla nostra coscienza può capitare anche di macchiarsi.
Ovest, ma neanche tanto – Diario dalla Palestina 155
Se vi trovate a Gerusalemme come fate a riconoscere quando vi trovate nel cuore della parte ebraica? Beh, facile, perché ci sono negozi come questo:
E scuole come queste, con bambini davvero orribili (poveri) – senza capelli e con lunghe trecce ai lati:
Che appena si accorgono che li stai fotografando… scappano: