Un ristorante, il Muro e una buona idea

Una strada collegava Gerusalemme, la Città Santa per eccellenza, Betlemme, dove è nato il cristianesimo, e Hebron, dove è nato il padre di tutte e tre le religioni, Abramo. Tutto in poco più di trenta chilometri. La strada c’è ancora, ma in mezzo c’è un muro; che presto diverranno tre muri, perché il percorso passa attraverso Efrat e Gush Etzion, due delle famose colonie illegali che il muro andrà a inglobare: è questo, infatti, uno dei punti in cui la barriera israeliana sconfina oltre la linea verde del ’48.

La parte di muro già costruita è quella che divide Gerusalemme da Betlemme: la barriera è a ridosso di Betlemme, poco lontano da dove abito io, e per andare di là bisogna seguire l’arzigogolato percorso fino al check-point che è situato un pochino più a nord proprio su quella che, almeno onomasticamente, rimane la Jerusalem-Hebron road. Pochi passi più giù c’è un ristorante con un nome molto esotico per i Territori Occupati: Bahamas.

Lo gestisce Jospeh Hasboun un cordiale e ingegnoso palestinese, di madre americana: pare che il nome del ristorante sia un omaggio lei, che quando il cielo era sereno dalla Florida vedeva quelle isole. Hasboun apre il ristorante nel ’97, ma le cose precipitano quando, tre anni più tardi, quella diventa una zona di confine e quindi di guerra. Per tre volte una pallottola entra nel ristorante, e il ristoratore è costretto a chiudere.

Qualche anno dopo Joseph ci riprova e riapre il ristorante. Ma gliene capita un’altra: proprio lì di fronte gli costruiscono il muro, una cosa potenzialmente distruttiva per gli affari, anche perché un sacco di clienti erano israeliani. Lui, pragmaticamente, dice: «Bisogna tirare fuori il meglio da quello che si ha davanti, e io davanti avevo questo muro, così mi son chiesto: ‘come farlo fruttare?’»

Perché è vero che molti dei vecchi clienti erano spariti, ma ora cominciava a venire proprio lì un sacco di gente interessata, turisti o curiosi, per vedere com’è veramente questo muro di cui tanto si parla, e da Gerusalemme quello è il posto più comodo.
Così Joseph ha un’idea geniale: dipinge il menù del suo ristorante proprio sopra al muro, cosicché gli avventori possano consultarlo direttamente dalla sua veranda.
«Sapevo che i soldati non mi avrebbero disturbato, non stavo mica lanciando razzi», ma il dipinto lo fa nel giorno di Kippur, quello di riposo per gli ebrei, perché «non si sa mai».
L’idea funziona talmente bene e colpisce lo sguardo di tanti curiosi che il ristoratore trova il modo, e il denaro, di aprire anche un secondo locale, sempre lì accanto, dal nome ancora più esplicativo: the Wall Lounge, il Bar del Muro, con tanto di regolare menù raffigurato dirimpetto.

«È assurdo» dice «ma per me quei piloni di cemento sono stati una cosa positiva!». Meno positiva, ovviamente, la situazione di questi tempi: «certo, ora che c’è la guerra non viene più nessuno», ma su Gaza non aggiunge altro perché «la politica fa tutta schifo». Anche di speranze per la pace ne ha poche: «il problema è la religione, in Medio Oriente tutti sono religiosi in un cattivo modo, da una parte e dall’altra». Poi specifica: «anche io credo in Dio, ma credo anche che siamo tutti fratelli: se la religione distrugge l’area, allora non abbiamo bisogno della religione». E dire che la chiamano Terra Santa.

(Unità, ieri – versione integrale, poi all’ultimo ho dovuto stagliuzzarla)

Qui trovate la vecchia foto e la storia come la sapevo prima di andare a parlare col ristoratore, quella che segue è la nuova foto con il menù del bar:

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Sabato 10 gennaio

I miei giorni – Diario dalla Palestina 130

È un po’ che non aggiorno sulle mie attività qui.

In questi giorni ho veramente pochissimo tempo, e alcune delle attività che avevo pianificato di fare sono state rimandate. L’attività principale, quella a cui non tolgo mai tempo, è l’incontro con i bambini di Amal. Per questione di correttezza, perché senza di loro questa bellissima avventura non sarebbe cominciata (e mi rimborsano buona parte delle mie spese qui), ma soprattutto perché vedo che il contributo che posso dare, assieme ad Ahlam, ai nostri bambini fa veramente fruttare qualcosa, mentre le altre iniziative hanno qualcosa di estemporaneo che delle volte me le fanno sembrare molto più che una goccia nel mare.

È qui che vedo quanto conta l’educazione, ma non quella statale – qui molti si laureano – ma quella durante l’infanzia, qui pochissimi bambini si trovano dei pastelli in mano, dei giochi che stimolino la fantasia, e – mi aspettavo d’essere più cinico anche io – basta confrontare i bambini di Amal con quelli che vedo fuori, per vedere l’abisso che li separa. Ovviamente questo non porta soltanto un sentimento di autocompiacimento, purtroppo inevitabile nel volontariato, ma anche una solida costernazione per non essere in grado di aiutare tanti altri.

Sto rincorrendo il mio tempo, e ieri è stato il primo giorno in cui sono riuscito a rientrare a casa prima delle 11 di sera, così tutte le attività che avevo programmato di fare sono state rimandate: sia quelle di un giorno – da dicembre non ho ancora mai fatto un salto a Ramallah, Hebron o in altre città della Palestina – sia quelle più strutturate, come l’insegnamento dell’italiano, che feci quest’estate per tre mesi, o il monitoraggio ai check point per il quale avevo un accordo di massima per dare una mano a un’associazione scandinava che lo fa.

Intanto, Ahlam e Mahdi (il fratello che la viene a prendere) mi hanno chiesto di insegnar loro l’italiano. Il cartellone c’è già, così ogni tanto dopo gli incontri con i bambini ci tratteniamo un’oretta a incartarci sui vari gl, sc, gn. Se riusciamo a strutturare un po’ questa abitudine, e li porto a un livello un pochino più avanzato, posso cominciare a ricoinvolgere i miei vecchi studenti che ogni tanto mi fanno telefonate minatorie chiedendomi: «quando ricominciamo?».

Perché sono contro alla guerra; a questa guerra

Prima sgombriamo il campo: a me dei motivi per cui Israele ha attaccato Gaza, e Hamas ha riniziato a lanciare missili importa nulla. Cioè mi interessano se mi aiutano a capire le restanti cose, ma in sé non spostano il mio giudizio sulla guerra. Della legittimità delle varie azioni, e soprattutto dell’attacco israeliano, mi interessa poco. Quello che mi interessa è sapere se per quest’area, queste genti, queste persone, ne risulteranno effetti positivi o effetti negativi. E nel caso l’effetto fosse positivo, mi domanderei: ma vale il numero di morti, e quello tanto più alto dei feriti, indifferentemente da una parte e dall’altra?

Penso che la volontà strategica di Hamas sia molto sopravvalutata, intendo i piani per il futuro. Dico volontà e non capacita perché Hamas non ha un piano per il futuro, il suo futuro è nelle braccia di Dio, e se combattere per la causa porta alla morte di tutta la propria gente, poco male: perché l’Idea conta più della morte. Anzi, la morte è uno dei mezzi – più che ammissibile, auspicato – per raggiungere quell’Idea, come nel caso di Nizar Rayan, ucciso da un missile israeliano e dalla sua decisione di non scappare da quella casa che sapeva sarebbe stata bombardata, portandosi all’inferno una quindicina fra varie mogli e figli.
Ho smesso di chiedermi perché Hamas abbia deciso di subire questo attacco – con ciò non intendo che Israele doveva reagire, ma che a Gaza sapevano che Israele l’avrebbe fatto: lo intuivano anche degli ingenui come chi scrive e, probabilmente, chi legge.

Al tempo stesso la capacità strategica d’Israele è sopravvalutata. I mille piani di difesa che ogni governo israeliano ha sul tavolo sono improntati alla sopravvivenza, più d’una volta a scapito altrui. La fine del terrorismo suicida ha maturato nell’opinione pubblica un’indifferenza per nulla sana, e un sentimento di rivalsa poco commendevole: “non hanno voluto dismettere il terrorismo per avere la pace? Ora col muro l’abbiamo dismesso noi, e a questo punto s’attaccano”. Molti, in Israele, pensano di poter andare avanti in questa condizione, con una mezza occupazione e un mezzo stato per chissà quanti anni, perché cosa ne guadagnerebbero gli israeliani da una pace?
Così che finire l’occupazione, smettere con alcune misure di sicurezza che hanno un carattere solo vessatorio, e con alcune leggi dall’impronta discriminatoria, quindi rendere la vita migliore ai palestinesi non soltanto manca di essere un valore, ma talvolta è concepito come un disvalore: loro-sono-i-nemici, quelli che ci vogliono distruggere.
E le scelte dei governi israeliani riflettono questo umore, peggiorandolo, portando ad accettare quel mercimonio di vite che è un attacco che uccide 700 persone e ne ferisce cinque volte per tutelarne – grazie al cielo e alla tecnologia – un centesimo di esse.
Che al di là dell’inutile obiezione che dice “succede anche negli altri paesi” (embè?), è vero che non succede così negli altri paesi: basta dare un’occhiata ai media israeliani per accorgersene.

Al contrario di molti che – qui e ora – sono d’accordo con me, non sono un pacifista senza condizionali, anzi per esser di sinistra sono piuttosto guerrafondaio: so che senza l’intervento della Nato le fosse comuni della Bosnia avrebbero iniziato a traboccare di gente ammazzata mentre era in fila per avere un tozzo di pane. Che se in Rwanda ci fosse andato un esercito vero, e non quattro berretti celesti a difendere i due hotel in cui c’erano turisti o diplomatici, gran parte di quel milione di persone che è morto avrebbe ora quasi quindici anni di più. E so che di guerre, purtroppo, sarò costretto ad appoggiarne altre, fino a che ci sarà gente che stermina gente.
E tutto questo lo so perché so che non fare nulla per evitare un omicidio non è essere neutrale, perché quello che conta non è la pace, ma la vita delle persone.
Ma, davvero, è questo il criterio che ora guida Israele?

Raccontava un bell’articolo dell’Independent che il ritornello più sentito in Israele, nell’ultima dozzina d’anni di kamikaze era stato: “che gente è questa che manda i propri figli a uccidersi per uccidere i nostri figli?”, specie quando a montare imbottiti di tritolo sui pullman di Tel Aviv erano dei bambini.
E questa era diventata una leva psicologica per alleviare, nell’intimo della propria coscienza, il peso di sapere che quelle azioni che quasi ogni israeliano considerava giuste, in ogni caso uccidevano molte persone, molti altri. Se questi altri – e questo è il retropensiero – non tengono alla propria vita, perché dovremmo tenerci noi?

Perché Israele non dovrebbe permettersi di misurare le proprie azioni col metro altrui anziché con quello che professa: se la perversione concettuale con cui Hamas tratta i civili contagia gli israeliani, Israele si ammala di quel male per cui sta cercando il vaccino.

Non confondere Barack con Barak

Voi venite qui aspettandovi foto dalla Palestina e ve ne ritrovate dall’altra parte dell’oceano: grazie a Fabio, lettore dopo che amico, e abitante della città di Obama per eccellenza.

Manifestazione pro-palestinese a Chicago – notevole  il “Yes we can, free Palestine”:

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Sposarsi in tempo di guerra

Da quando è cominciato l’attacco israeliano a Gaza, qui a Betlemme ci sono dimostrazioni di protesta ogni giorno: ieri una fiacciolata si è conclusa proprio alla Chiesa della Natività. Doveva essere la “manifestazione dei pacifisti” ma gli slogan erano «dal Marocco al Qatar dobbiamo cacciare tutti gli ebrei!» o «Dove sono i paesi arabi? Vogliamo un esercito di soldati, non di pecore!».

Per strada, invece, si vedono gruppi di ragazzini che agitano dei bastoni, non li ho mai visti colpire nessuno, se non qualche gatto randagio. È un modo per mostrare la propria rabbia, e dimostrare a sé stessi e al prossimo che si è pronti-per-la-battaglia.

Sulla ringhiera davanti al palazzo dell’UNRWA, cioè l’ONU, di Betlemme sono stati attaccati dei cartelli con scritto “fermate l’olocausto a Gaza” o un più efficace “Anche i nostri bambini devono vivere in pace e sicurezza”.

Tutti gli eventi sono stati disdetti, l’albero di Natale è stato spento, e ogni festeggiamento cancellato per lutto. Molti matrimonî sono stati annullati, e chi non l’ha fatto corre il rischio di ritorsioni degli estremisti, o almeno così mi ha messo in guardia Amin, un mio amico betlemita: «festeggiare oggi è haram», proibito, peccato – la stessa parola che si usa per il maiale, l’alchool o la blasfemia.

D’altronde i matrimoni sono l’unico festeggiamento, in Palestina, l’unica vero ritrovo al quale partecipino persone di entrambi i sessi; ma anche lì, nel matrimonio tradizionale mussulmano, donne e uomini sono divisi da una parete, perché non ci deve essere alcun contatto fisico: le relazioni prematrimoniali sono ancora un tabù solidissimo. Difatti poi è passata una bellissima ragazza e Amin – con quel fare cameratesco di chi fa apprezzamenti volgari sulle donne – ha esclamato: «haram!». Ma ho l’impressione che non si riferisse a Gaza.

(Unità, ieri – Versione originale, prima che un  “correggi tutti” ne deturpasse il finale)

Giovedì 8 gennaio

Post – Diario dalla Palestina 129

Facciamo così, io pubblico il post da Betlemme che mi impiega meno tempo, e voi vi fate una risata.

Eccolo:

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Sopra è in ebraico (vuoldire che è lì da prima del ’96), sotto in arabo.

Giorno X

Informazione di servizio: conferisco a tutti coloro cui devo una email il diritto di uccidermi se non rispondo entro sabato sera.

L’Intifada dei bambini di Dheisheh

Quando sentiamo parlare di campi profughi pensiamo, sul modello di quelli africani visti in tv, ad ambienti sterminati e lontani dalle città, dove si susseguono file di piccole tende provvisorie: ovvero tutto il contrario di ciò che è un campo profughi in Palestina.

Qui non ci sono tende, ma fatiscenti case in muratura costruite su più piani negli anni. All’interno grandissimi stanzoni nei quali vive un intero nucleo familiare che, per gli standard palestinesi, può raggiungere anche le venti persone. I campi sono inglobati dalle città, senza stacchi fisici: la questione è semmai la mancanza di spazio.

È nei campi profughi che si incontrano le realtà più miserabili e degradate della società palestinese, specie fra le generazioni dei giovanissimi. Non si tratta di meninos de rua, perché la scolarizzazione in Palestina supera il 95% e la famiglia è un ammortizzatore sociale molto efficiente: il problema è la chiusura su di sé di questi ecosistemi, nonostante la contiguità territoriale con le città. Le stesse scuole allestite dall’ONU all’interno dei campi, che possono essere frequentate soltanto da chi ha ereditato lo status di profugo, contribuiscono all’autoreferenzialità dell’ambiente.

Ci vuole tempo per riuscire a erodere quel percepibile muro di diffidenza, tantopiù per uno straniero. Spesso sono gli stessi bambini a domandare denaro e una risposta negativa può costare una sassaiola o un uccello morto.

Altre volte va meglio: un bambino su un balcone “sparava” con un mitra giocattolo a tutti i passanti, mimava il suono dei colpi con la bocca e il rinculo del fucile con il corpo. Dopo aver puntato tutti i noncuranti pedoni ha rivolto il fucile verso di me e «pum-pum-pum!»; Io mi sono gettato al suolo, in mezzo alla strada, a braccia larghe. Il bimbo per due secondi è rimasto paralizzato, poi ha guardato la canna del suo fucile, incredulo. Quando mi sono rialzato e l’ho salutato, ha fatto un sorriso che valeva tutto il resto e di più.

(Unità, ieri)

Mercoledì 7 gennaio

Mi fido di te – Diario dalla Palestina 128

Lo so che è una coincidenza, ma in questi giorni di guerra – per assurdo che sembri – i soldati ai check-point sono molto più gentili, simpatici, educati. Dice, e certo, ai tuoi occhi – che sei occidentale – vogliono sembrare buoni. No, di solito se ne fregano. Scorbutici e menefreghisti, quando va bene. E invece in questi giorni, sono educati, non sembrano voler abusare del loro piccolo spazio di potere, fanno le domande nel modo giusto: che sembra che non ti chiedano da dove vieni per motivi di sicurezza, ma perché sinceramente interessati. E ti viene da farci una battuta, uno scherzo, che in altri contesti ti verrebbe da dire “meglio di no”.

Non pensavo di raccontarli, mi vengono in mente ora ‘sti due episodi, mentre scrivo: l’altro ieri mentre mi controllavano lo zaino,  il soldato mi ha fatto “aspetta, aspetta”, io pensavo al solito terzo grado o al “full-monty” come lo chiama qualcuno, e invece m’era caduta una matita. Io, vi sembrerà inopportuno, ma nel contesto così cordiale – credetemi – non lo era, ho detto “non preoccuparti, non è una bomba” e lui, sorridendo me l’ha raccolta e porta.

Stasera invece. Tornando, una soldatessa mi ha chiesto da dove venissi, e io le ho detto che ero stato a cena a Gerusalemme. Lei mi ha chiesto dove, e io mi sono inventato un posto. Si fa così, è abbastanza comune inventarsi le cose per non stare a spiegare tutto. Meno dici e meglio è. Però lei ha commentato come si mangia in quel posto, e io mi sono inventato che – no – non avevo mangiato bene. Avevo capito che voleva essere un modo di essere cordiale, pur facendo il suo lavoro: che è quello che ci vorrebbe tanto, ognuno di tutti questi giorni, perché i palestinesi non avessero solo quell’immagine feroce e al tempo stesso indifferente dell’esercito.

Però quando mi ha chiesto con chi:  io le ho detto “amici”, che è la tipica cosa che si dice per non dire “cazzi miei”. Ed è questa la brutalità dell’occupazione, dei check point, dei controlli: che spersonalizza l’interlocutore, che fa diventare i rapporti umani un riflesso condizionato. Poi sono tornato in me, mi sono reso conto che me l’aveva chiesto in modo amichevole, ed ero stato io quello troppo diffidente, allora ho aggiunto “amici… amici israeliani: hai visto, abbiamo fatto la Pace?”

Perché dal fatto che stessi rientrando a Betlemme di sera era ovvio che vivessi lì, e da questo fatto era conseguente che – pure se quella è una sede dove non lo si dice mai – fossi un volontario che, nelle barbare semplificazioni imposte da questi schieramenti, sta-dalla-parte-dei-palestinesi.

E io le ho detto “Laila Tov”, buonanotte, che è una delle pochissime cose che so in ebraico, e allora lei mi ha risposto “Leile Said”, buonanotte, che è – forse – una delle pochissime cose che sa in arabo.

Voi lì sul divano, mentre io sono qui in mezzo alla guerra

Era un po’ che avevo questa sensazione sgradita, che mi sembrava di stare iniziando a dare – in quello che scrivo – la brutta impressione di pensare che le cose, qui, le capisco solo io perché ci sono. Poi un amico un po’ scemo mi ha scritto:

Inizio con una critica. distanti saluti di oggi -cioè di ieri -, post “ovvio“. leggendo, ho avuto la sgradevole impressione (probabilmente tu non volevi dirlo, ma allora a maggior ragione tieni presente che l’impressione che dai è questa) che tu stia cominciando a fare ragionamenti del tipo “ma che ne sapete voi (voi che non ci avete mai messo piede, voi che vi fate idee da quello che dicono i giornali) della palestina”, “lo so io che sto qui” etc. soprattutto l’ultima frase non fa che accentuare ciò che si percepisce in filigrana fin dall’inizio.

E ha molta ragione, non solo per quel post.

Non è vero che per capire le cose bisogni essere qui, anzi talvolta da lontano le cose si vedono pure meglio.
Quindi ecco, se delle volte vi sembra di leggere che lo penso, da ciò che scrivo, delle due l’una: o penso male, o scrivo male.

p.s. O tutteddue.