Mi fido di te

Ne ho viste tante grafiche, ma questa guida scritta (in italiano) da Christian Rocca, mi sembra la più comprensibile, da tenere sottomano durante la lunga notte.

p.s.  Io ho detto 298 a 240, ma ovviamente spero di più.

Spero bene

Ivan, cui va tutta la mia invidia, è in volo per Chicago dove seguirà la notte elettorale.
C’è da dire che io non saprei spiegare a parole perché è bello seguire l’elezioni proprio da lì, essere vicino al cuore dell’America di Obama, mi appellerei alle sensazioni, alla comunione spirituale dello star lì.
Lui, invece, le ha trovate quelle parole, e ci ha anche fatto un bel post.

Ecco dove vado, ecco cosa vado a fare. Vado a vedere che faccia ha la speranza. Obama ha detto che la sua storia non sarebbe stata possibile in nessun altro paese al mondo, e certamente non sarebbe stata possibile nell’Italia di Berlusconi, nell’Italia degli establishment che vincono sempre, nell’Italia che trasmette il potere, le cariche e i soldi rigorosamente dai padri ai figli, che disprezza il merito e protegge le rendite di posizione, nell’Italia dei rifiuti e della camorra trionfante, nell’Italia che sottovaluta le donne, che umilia i gay, che dimentica i giovani, che discrimina apertamente le persone di un altro colore. Arrivo da un paese chiuso, vecchio e disperato e sono in pellegrinaggio, un pellegrinaggio umanista e laico, nell’attesa di vedere da vicino com’è fatta la speranza

Inchiodarli al di dietro

Riincigno la categoria il di dietro – quella sulla dietrologia – per riferire la conversazione orecchiata da un amico nell’ascensore di un grande quotidiano: dice il tipo, immaginatelo attempato e canuto redattore vecchia scuola PCI.

(corsivi miei)

Ma vedrai che lo ammazzano. No, non possono (possono chi?) far vincere un nero, faranno sicuramente qualche broglio. S’inventeranno qualcosa per non farlo vincere. Figurati, dài. Ti pare che un nero possa diventare presidente degli USA (guarda che non tutti sono razzisti come te). E se – per sbaglio – ci diventa, beh, sicuro, lo portano a Dallas (anvedi quanto sei colto, ma ancora co ‘sta storia di Kennedy e il complotto?) e lo ammazzano (e dell’uomo sulla luna, che ne dici? Non ci sono andati eh…)..

Il problema di queste cose è che nessuno le sconta, nessuno va a ricordarsi che quello ha detto questa o un’altra idiozia, se Obama fra un anno e mezzo avrà ritirato le truppe dall’Iraq nessuno andrà a inchiodare il dietrologo di classe alla proprie precedenti parole. Cosippoi il giorno che – solo per di dietro – ne azzeccherà una su mille, potrà dire di saperla lunga e “hai visto?”.

Chi ben comincia

Distanti Saluti iniziò dieci mesi fa con un endorsment a Obama, con metafora ciclistica e anche piuttosto timido. Nel frattempo siamo diventati meno timidi, Obama ci ha molto illuso e McCain ci ha deluso, è cosa ovvia che la giornata di oggi sia consacrata all’election day, sperando che il Nostro candidato continui a illuderci.

Lunedì 3 novembre

Refugee camp – Diario dalla Palestina 95

I campi profughi in Palestina non sono quello che si aspetta l’occhio occidentale abituato agli spezzoni di TG sui paesi africani con le tende e le mosche che ronzano intorno a quei visi smagriti. I campi profughi sono agglomerati di persone, qualche volta grandi quanto una città di provincia, che hanno (o più spesso hanno ereditato) lo status di profugo.

Per fortuna la situazione è molto meno peggio di quanto saremmo abituati a pensare: non ci sono tende, ma case. Ci sono negozi, mezzi pubblici di linea, connessione a internet. C’è più poverta che nella Palestina in genere, ma non così tanta di più. Spesso si vive sugli aiuti dall’estero, e numerosissimi edifici sono intitolati a uno stato o a quell’altro, in virtù delle donazioni ricevute per la costruzione. Dà un grande aiuto l’UNRWA, l’agenzia dell’ONU che fornisce ai “profughi” sussidi, gas, luce, acqua, raccolta della spazzatura. Più di un palestinese mi ha anche confesato un po’ di risentimento verso chi può vantare dello status di profugo: «certo che io ti faccio pagare il falafel 4 shekel e a Aida lo paghi 2 shekel: lì le Nazioni Unite gli pagano l’affitto e tutte le bollette!», mi ha detto il venditore di falafel più buono di Betlemme.

In Europa se ne parla tanto – le considerazioni politiche al riguardo le rimando a un altro post – questo qui solo per mostrare quello che mi sembra più interessante: come è effettivamente un campo profughi.

Di campi profughi ne ho visti una decina, e devo dire che non sono troppo diversi l’uno dall’altro; quello a cui ho fatto più foto è quello di Jenin, celebre per il massacro/battaglia divenuto tristemente celebre nel 2001. Le foto che seguono sono di lì.

Non c’è una vera e propria entrata al campo profughi di Jenin, come quasi sempre accade non c’è soluzione di continuità con la città, questa è più o meno l’entrata:

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Qualche casa:

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L’unico vero modo per riconoscere quando inizia un campo profughi sono i cassonetti dell’ONU, che sono grandissimi e tutti blu con scritto “UN”. Qui la foto è venuta male, ma potete intravvederlo sulla sinistra, accanto a dei normali cassonetti.

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Una sala da biliardo ingegnosamente ricavata in un garage, purtroppo tutti fumano, quindi io non ci posso entrare:

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Ecco la sede dell’UNRWA l’agenzia dell’ONU per i profughi palestinesi. Ce n’è una, oltre a scuole, e altre infrastrutture, in ogni campo. Per quanto ci siano contestazioni in entrambi i sensi (dicono di essere contro, ma non fermano le azioni degli israeliani! I palestinesi sono privilegiati rispetto a tutti gli altri profughi al mondo! Cose entrambe vere), l’UNRWA è l’unica che fa veramente qualcosa:

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Gli onnipresenti festoni con le bandierine palestinesi, anche a Jenin non possono certo mancare:

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Un negozietto della compagnia telefonica (di cellulari) palestinese, Jawwal:

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In Palestina, e ancor più nei campi profughi Saddam Hussein è molto amato. La cosa risale al tempo in cui mandava un assegno di mille dollari a ogni famiglia di uno Shaeed, un martire, uccisosi esplodendo in Israele. Di cartelloni come questo sono piene le strade, le case:

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Una foto alle strade, dall’automobile:

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Un altro Saddam. Ogni volta che li vedo penso al mezzo milione di persone, arabi, mussulmani, uccise in Iraq da Saddam Hussein, e – come ho detto a qualcuno – it makes me cringe.

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Come in ogni paese che si rispetti, anche i campi profughi hanno la loro moschea:

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Saremo mica noi, quelli razzisti?

Io l’ho pensato fin dall’inizio che la “questione razziale”, intesa come americani che non voterebbero Obama perché nero, è tanto sopravvalutata. Ammesso che ci siano persone, in America, che odiano i negri – e quante sarebbero? il 3%? il 5%? esageriamo, il 15%?- quanti di quelli voterebbero, bianco o nero, un candidato democratico?

Mi sembra invece il tipico argomento per dire “lo sapevo io”, se andrà male a Obama. Ho sentito più d’uno dire, dirmi «sì, anche io penso che Obama vincerà, però non siatene così sicuri, perché c’è un fatto che non considerate: è di colore»
Ora, a parte che io non dico di colore perché non mi faccio rubare le parole dai razzisti, ma chi è “così” sicuro? È un’elezione, mica un plebiscito. Ma se Obama perderà, come possibile, sarà per molte e più complesse ragione che non quelle del colore della pelle.

Insomma, lo scrivo altrimenti sembra che anch’io voglia millantare un vaticinio catastrofico con i miei due o tre amici obamiani: il fatto che Obama sia nero, semmai, è un vantaggio.

Io l’ho pensato fin dall’inizio, per fortuna lo vedo scritto da qualcun altro:

The usual objection here is that Mr Obama would be doing much better if there weren’t so many racists in America. That, in his own words, too many Americans have been prodded into worrying that he “doesn’t look like all those other presidents on the dollar bills”.

I’ve been through this argument before. The main problem with it is that it has the question about Mr Obama’s race almost precisely the wrong way round. In fact his skin colour has assisted, not hindered, Mr Obama in making the case that he represents change.

Gerard Barker, Time.