Sabato 11 ottobre / extra

Come tutti quelli che hanno letto questo sanno, la mia decisione di andare a fare volontariato non è stata data dallo spirito integerrimo, dalla missione spirituale. L’ho fatto e lo farò, per un periodo, perché ho del tempo da dare. E mi sembra un modo per perderlo un po’ di meno, il tempo.

Perché questa premessa, qui? Perché ho sempre pensato a cosa fare quando fossi tornato, senza darmi una risposta se non quella che mi sarebbe piaciuto in qualche modo scrivere. Giovanna mi ha chiesto «ma perché non inizi a provare a pubblicare qualcosa da lì?». Dunque, è un minuscolo spazietto di mille battute – non troppo diverso da quello delle lettere dei lettori – condiviso con altri cinque ragazzi della mia età, su un settimanale femminile. Insomma, nulla di cui vantarsi e una cosa più minuta che piccola: ma un buon modo per vedere, io per me, se quella dello scrivere è la strada che voglio percorrere.

Insomma, qui solo per condividere: il settimanale si chiama A, la pagina 189.

Venerdì 10 ottobre

Perfino – Diario dalla Palestina 81

Dicevamo di Mohab, e di quando racconta – per vie traverse – qualcosa di ciò che succede a casa. Era venuto fuori l’argomento dei genitori, dei padri quindi, di quando questi fanno delle richieste. Il discorso, molto in genere, era sull’ubbidienza cieca:  «in America non succede» ha detto Mohab, se tuo padre ti picchia va in prigione.

Quand’è così, Ahlam e io cerchiamo di parlarne il più possibile: in questo genere di cose abbiamo un’intesa immediata, e il mio ruolo – senza averlo pianificato – è quello di fare le domande. Di chiedere a Mohab, o chi per lui, cosa ne pensi. Di trovare la serratura. Gli ho chiesto se pensava che qualcosa sarebbe cambiato anche qui, e lui ha risposto «No, mai». Allora gli ho raccontato che anche in Italia, tempo fa, succedeva: se è cambiato in Italia perché non deve cambiare in Palestina? Lui ha detto che in Palestina molti non vogliono bene ai propri figli, ma tengono solo a sé. Poi con un’amarezza che non gli avevo mai visto ha aggiunto «perfino gli ebrei non lo fanno».
E mi ha stupito, vivendoci tutti i giorni, non pensavo che un ragazzino di quattordici anni riuscisse ad andare oltre al pregiudizio anti-israeliano.

Mentre parlavo con lui pensavo a quanti, armati di schematismi pensierodebolisti, avrebbero detto che questi sono valori occidentali, che non dobbiamo imporli, che bisogna rispettare tutte le culture (picchiare un figlio è una “cultura?”), senza considerare che rispettare una cultura significa rispettare chi detta legge in quella cultura, in genere i maschi, anziani (e eterosessuali) e trascurare le minoranze.

Ho cercato di trasmettere loro proprio l’opposto, che devono prima sentirsi protagonisti della propria vita, poi cittadini del mondo, e soltanto in ultimo membri di un popolo e della sua discussa tragedia. Che casa mia è quella dove mi piace stare, e dove ci sono le persone a cui voglio bene, non quella in cui sono nato. Provo a spiegar loro questo.

Gli dico sempre che il Colosseo è mio quanto loro. Poi ci scherzo sù: anche se  sono nato a Firenze non ho nessun diritto in più di loro nel tifare la Fiorentina! Convertitevi, altro che Milan (che a Betlemme va per la maggiore). Così la domenica, quando segna la Viola urlo sempre «gooool», e corro ad abbracciare Jaber, Mohab e Yazan.

Giovedì 9 ottobre

Trova le differenze /2 – Diario della Palestina 80

In qualche modo è la seconda versione di questo.

Mohab è il più grande dei ragazzi, è quello con il padre violento che sembrava averlo rovinato. Ne avevo parlato qui, proprio quaranta racconti fa. Quello a cui sareste abituati – avvertire la moglie (picchiata anche lei), parlare con la famiglia (nella maggior parte dei casi è d’accordo), chiamare la polizia (ti dicono: «embè?) – in Palestina non si può fare.

In questi tre mesi è migliorato enormemente, le prime volte che lo vidi non parlava. Completamente in silenzio, sempre in disparte, sembrava abbrutito senza emozioni, neanche rabbia o disprezzo. Standogli accanto per un bel periodo ho iniziato ad apprezzare i momenti di apertura, sempre meno rari. In cui, nel mezzo di una discussione su altro, accennava alla propria condizione. Ovviamente in maniera velata, amara, parlando sempre in generale. È-ingiusto-che-succeda-questo. Ancora più spesso in contrapposizione, mentre si sta raccontando di una storia o spiegando qualcosa che è giusto fare, Mohab dice «eh ma spesso non è così». Domani vi racconterò di una tal volta.

Piano piano è migliorato, e gran parte del merito è di Angela (G) e Umberto che hanno raccolto i soldi necessari a mandarlo in una scuola migliore, una scuola privata. Al contrario di ciò che succede in Italia, le scuole private sono enormemente migliori – sono quasi tutte gestite dalla Chiesa, e sono molto costose. Gli insegnanti se ne fregano degli studenti, e tutto ciò che fanno è dare cose da imparare a memoria. Non rispondono neanche alle domande che gli fai se non hai capito, ci ha raccontato Mohab.

Ora le cose vanno molto meglio, Mohab sorride spesso e l’altro giorno si è addirittura seduto, da solo, accanto a una femmina. La cultura della segregazione inizia sin da bambini, e più volte i maschi si sono rifiutati di continuare un gioco perché si trovavano a doversi sedere accanto a una bambina (ovviamente Ahlam e io siamo inflessibili). Invece un paio di settimane fa Mohab era arrivato prima degli altri ragazzi, e c’era solamente Nama, la sorellina di Ahlam che c’era venuta a trovare. Così, mentre io e Ahlam finivamo un lavoro per l’associazione, lui e Nama si sono messi a giocare a ‘Uno’, che fra i nostri bimbi spopola. Io, solito scemo, non m’ero accorto di nulla, ma Ahlam mi ha detto «guarda, guarda…».

Anche con me Mohab ha iniziato a prendere confidenza, e ora quando mi vede mi fa l’occhiolino e mi dice «ciaó», lo pronuncia con l’accento sulla ‘o’. Tanto da farmi capire che anche lui è contento di scherzarci su. Così,  l’altro ieri, non abbiamo fatto una foto assieme, ne abbiamo fatte due – una con la faccia triste che faceva quando sono arrivato, e una con la faccia di tre mesi dopo:

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Le trovate le differenze..?

Mercoledì 8 ottobre

Giai – Diario dalla Palestina 79

Faccio questo post dall’Italia, dove sono sbarcato da qualche ora. Tornerò fra un mese circa forse a Jenin, forse ancora a Betlemme, ma intanto staccherò un po’: la mia finestra sulla Palestina sarà qui, perché ho miliardi di foto, foglietti, argomenti, in arretrato da dovere ancora pubblicare. Prometto un post al giorno.

Intanto le foto del saluto ai bimbi, che è stato un certo arrivederci e non un addio:

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Lunedì 6 ottobre

Una boccata d’aria – Diario dalla Palestina 78

banksy.jpg Quello che vedete non è un mirino, ma l’obiettivo di una macchina fotografica. Il gioco degli specchi – che rincorre a vista la mia foto sola – di questo giorno denso.

La vita è ciò che ti succede mentre sei occupato a fare altri programmi, bellissimo ragazzo.
La vita, per sua quotidianamente inopinata sincronia, non può essere fatalista.

Tanto che nel suo grumo, l’oggi, che doveva essere il più pianificato e il più lontano dall’efferatezza della guerra non combattuta ha scartato di lato, fuori dal binario, invertendo i due assunti.

C’era quella favola raccontatami dalla nonna un giorno che fu (lontano come sono i giorni dei racconti delle nonne) di lui che aveva scoperto la lampada magica: quella che gli permetteva di andare avanti nel tempo; e il martedì saltava alla domenica perché sapeva che il dì di festa sarebbe stato gaudente, pieno, bello.
E fu così (lei la faceva più lunga per la mia indefessa ostilità al sonno e alle fini) che arrivò a ottant’anni in un battibaleno, senza averla vissuta, la sua “modesta e timorata gioia di vivere”.

Ecco, oggi si è colorato di uno di quei giorni di vetro – fra martedì e domenica – quelli che non potevi strofinare prima, per cui è meglio lasciarla lì, la lampada.

Eppure è stata la giornata in cui ho fatto la traversata della rozza indifferenza all’ingiusto, nella pigra ferocia dei soldati di stanza a Hebron, nel tronfio disprezzo dei coloni di lì.
E poi una moglie tanto velata, tanto professionalmente impegnata a non stringere mani di sesso maschile, tanto più giovane del marito che avrebbe dovuto essere così laico, così tollerante, così ateo da essere chiamato Gevara, Che Guevara qui. E poi come moglie aveva scelto lei.

Y entonces vivió, de lo oscuro.

Il mio lago di Narciso. Con il vitale fastidio, dubitoso di me, che sarebbe stato il mio ad ascoltarmi la prima volta, a fare le stesse domande, a grattare il barile vuoto delle stesse risposte. Due miei altri occhi.
E per quei pregiudizî amici di una parte sola nemici della pace, quella grata e pudica indignazione di chi sa il mercimonio di questa parola, indignazione.
Dei tanti che preferiscono, testardi, un malinteso giusto, alla gioia lucente di chi ha il cuore in equilibrio, per una pace possibile; che non capiscono cosa è giusto, nondimeno ignorano che ciò che funziona, talvolta, è più giusto di ciò che è giusto.
Chi ama soltanto una classe sociale – figurata – può fare finta che no, ma chi vuole bene alle persone, ciascuna persona, deve fronteggiare la realtà e il possibile. Coi dubbi laceranti, pensarci: non urlare pensieri.

Era già stato un po’ così con lui, più divertito e meno attento. Ma forse quella volta avevo meno bisogno di una testa pensante, di una boccata d’aria.
Non ero ancora abbattuto dalla cecità di questo tipo d’assenza di speranza.
Vorrei incontrare un profeta passeggero, ogni qualche tempo, per sapere che va bene. Che ha uno spiraglio di senso quello che faccio.

Potreste, a buon titolo, dire «cosa ti aspettavi?», sapevi di chi ha il fucile e ha paura di chi non ce l’ha, e sapevi della desolazione di chi non ha la grazia di Dio di essere maschio anziano. Ma si è sempre pronti a sapere, non a vedere.
C’è dell’altro.

Mi disse, una persona con un bel terreno e poca voglia di lavorarlo, che chiedeva agli altri di abitare-la-sua-stanza-senza-mai-spostare-niente-senza-mai-fare-rumore. In passato mi aveva sempre contestato l’irruenza del mio prender gli altri per mano, leggendo il mio Diario aveva glossato con brute ma non tiepide parole. Mi scrisse:

Non so, credo potrei sciogliermi per la dolcezza delle cose che scrivi e per la tua ingombrante presenza sorridente nelle foto. Sarà che non mi sembra la stessa persona che ho (appena*) conosciuto (?).
a presto

*appena nel senso di “poco”

Risposi che

È sempre stato il mio modo di dedicarmi agli altri, irrispettoso, invasivo, ingombrante.

Non aggiunsi che parte dei motivi per cui ho lasciato l’Italia per un po’, sono i tanti «devo» orecchiati: è bello capire che qualcuno capisce quelle ultime tre voluminose parole, piuttosto.

Tornerò, perché ora sto partendo, o qui o a Jenin, fra un mese.
E quando avrò il cuore stanco aspetterò l’arrivo della prossima, nuova, boccata d’aria.

Domenica 5 ottobre

Ramadan, episodi fine – Diario dalla Palestina 77

È finito il Ramadan e dovrò ricominciare a mangiare da solo, per conto mio. Nel mese sacro, a Gerusalemme, c’è un cannone che al tramonto spara a salve. Come al Gianicolo, ma qui i bimbi e i turisti sono gli unici che non ci fanno caso: è in sincrono con la preghiera del muezzin ed è il segnale che la gente può ricominciare a mangiare e bere.

Di là dal muro tutti smettono di lavorare mezz’ora prima del tramonto e vanno a casa per mangiare con le famiglie; ma qui i turisti sono un’occasione troppo ghiotta per chiudere alle 17, così ognuno prova ad arrabattarsi come può, e gli arrabattamenti di ciascuno – riuniti – fanno comunità.

Io non ci credevo, finché non l’ho visto coi miei occhi: allo sparo del cannone i mussulmani della Città Vecchia si mettono a saltare e ballare di gioia, poi si riuniscono intorno a improvvisati ma lunghissimi tavolini e sfogano tutti insieme la fame accumulata nelle lunghe ore di digiuno.
Quello è l’unico momento in cui passando per la Città Vecchia non sarete tirati di qua di là da ciascun negoziante insistentemente desideroso di mostrarvi il proprio negozio, e di spillarvi i vostri euro.

Perché in effetti gli occidentali sono considerati un po’ come robot con un portafoglio: di più, nessuno si aspetta una gentilezza da parte dei “turisti”, così basta un candido «buon appetito!» – che in arabo si dice come buona-salute – passando, per essere focosamente invitati a mangiare assieme a tutti.

Ecco, se vi trovate a Gerusalemme, affamati, la parola magica è «Sahktìn!».

Sabato 4 ottobre

Sopprobblemi  – Diario dalla Palestina 76

Uno dei problemi che sono sopraggiunti al momento di fare gli inviti al matrimonio era quello non indifferente del: li invitiamo i mussulmani? Sembra che questa presenza non fosse molto gradita, ma al tempo stesso c’erano ragioni d’etichetta che imponevano un’estensione dell’invito almeno ad alcuni: Montaser (lo sposo) e il padre erano stati più volte invitati ai vari matrimonî dei mussulmani di Zababdeh e paesi limitrofi.

Ho chiesto il motivo di questa avversione, ma fra le spiegazioni l’unica chiara è stata che «potrebbero importunare le nostre ragazze». Effettivamente non è la prima volta che sento tirare in ballo l’argomento, perché il misto di sessuomania e sessuofobia che si respira in Palestina è più accentuato fra i mussulmani. Ma ovviamente c’è dell’altro.

Alla fine si è deciso di fare un pranzo prima del matrimonio solo per i mussulmani (a cui io, per dire, non ho partecipato) nel giardino di casa, in modo che risultassero come invitati ma non presenti alla cerimonia vera e propria – la festa del post “sì”. Inutile dire che l’invito valeva soltanto per i maschi, le pochissime mogli venute sono rimaste a mangiare qualcosa dentro casa, con la madre e le sorelle dello sposo.

Si era però sollevato un altro problema: dice che sugli inviti di matrimonio, nell’islam di qui, non è compreso il nome della donna ma solo quello dell’uomo. Perché il nome della sposa non deve essere conosciuto al di fuori dell’alveo familiare più stretto. Così la questione era: ristampare altri biglietti per loro, o fregarsene col rischio che si offendano (sic)? Montaser se n’è fregato. Evviva gli sposi, Montaser e Nura.

Venerdì 3 ottobre /sera

Uno sciame – Diario dalla Palestina 75

La festa dello sposo, l’addio al celibato, la festa per i mussulmani, il matrimonio vero e proprio, il post matrimonio.

Vi sareste chiesti cosa faccia io a tutte queste feste in cui si sta sempre a ballare: beh, si, qualche volta – tanto non mi conosce nessuno! – mi capita anche di improvvisare un ballo (qui con il padre di Salwa):
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Invece una cosa che ho notato subito, oltre a quella che – contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare – ai matrimonî qui si mangia poco, è che i bambini sono trattati con evidente sufficienza, quando non con fastidio, da adulti e appena-non-più-bambini.

La maggior parte delle volte il mio impiego è questo:

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Snobbati dai grandi, spesso allontanati, quando hanno trovato qualcuno che li considerasse, sono diventati super partecipi, e abbiamo fatto un’infinita quantità di giochi. Più volte benintenzionati adulti sono venuti da me per mandarli via, assumendo che mi disturbassero; quando spiegavo loro che mi stavo piuttosto divertendo rimanevano interdetti, e mi ringraziavano come si farebbe con il garzone del supermercato che ti porta la spesa a casa.

Poi, finita la festa tutti mi hanno detto che sono molto “buono di cuore” (che io ho interpretato anche come “un po’ scemo”). Il padre di Salwa, fra il serio e il faceto, mi ha fatto dire che ora mi assumeranno a tutti i matrimoni per tenere i bambini fuori dalle palle. E se una suora ha tradotto così, chissà cosa avrà detto veramente!

p.s. Ho anche un video di tutti i bambini che cantano “Fratelli d’Italia”, ma quello lo caricherò quando avrò a disposizione una connessione decente.

Venerdì 3 ottobre /mattina

Rosso corallo – Diario dalla Palestina 74

Mercoledì sera la festa di addio al celibato. Per fortuna non ha nulla a che vedere con quel rito disgustoso che abbiamo dalle nostre parti (se concepisci il matrimonio come un incatenamento, semplicemente, non sposarti). Qui hanno fatto una festa, che è una sorta di replica in piccolo del matrimonio. C’erano entrambi i venturi sposi, e si è cantato e ballato per tutta la sera.

Anche qui, però, non potevano mancare delle brutture: il rito, per l’uomo, impone il taglio della barba in pubblico, operazione che viene eseguita seguendo il filo conduttore di quel tipo di goliardia (da caserma) che non ho mai sopportato: schiaffi, pizzicotti, crema spalmata sui capelli, tutto ciò che possa dare fastidio al futuro sposo, perché così è divertente (?). Il significato simbolico, credo, sia nel mettersi a posto, come a dire del “mettere la testa a posto”. Ma quando la barba ricresce?

Il rito che tocca alla sposa, per la mia sensibilità, sfiora il raccapriccio: le spetta il compito di intingere le mani nella henna (variante dell’henné con cui si tingono i capelli), una crema vegetale che imprime sui palmi un colore rosso, più o meno acceso a seconda della durata del trattamento pubblico. Mi riferiscono che i mussulmani indugino molto di più, facendo diventare le mani di un rosso acceso. Non è difficile intuire il significato simbolico di questo gesto, con la ragazza che – parole né ironiche né mie – così è «marchiata».

Eppure i riti, fra questi il matrimonio, potrebbero essere una cosa così bella*.

* in onore a Davide che ama le frasi finali a effetto!

Giovedì 2 ottobre /sera

All the world (wide-web) is village – Diario dalla Palestina 73

L’accesso a internet è stata un’impresa miracolosa che non è raccontabile per filo e per segno, mi limiterò ai sommi capi: intanto qui – l’ho scoperto con un «ah già» appena arrivato – la mia compagnia telefonica non ha segnale in tutto il paese, neanche sulla terrazza col pollaio che destava barlumi di speranza. Sono quindi tagliato fuori da ogni contatto. Non esiste un internet point, e il tipo – se ho capito bene l’unico che ha l’adsl in paese e celebre per questo – ha il filtro rotto, o qualcosa di simile. Non posso andare a Jenin perché fra i duemila preparativi delle tremila feste, allontanarsi di qui per troppo tempo sarebbe male, come dicono in Sicilia.

Alla fine il miracolo è avvenuto per mezzo di un cinquantaseiessei e di un cugino di Salwa, che dovrebbe fare il tecnico informatico e dovrebbe parlare inglese ma è stata un’impresa di stato fargli capire che quando veniva chiesto il “numero di telefono” questo non era quello di casa. Ho provato a spiegargli che si trattava del numero del provider, ma lui mi ha detto con tono sicuro «sciufi», guarda. Ho aggiunto che facendo così, se ti chiami da solo, viene occupato: quando è effettivamente risultato occupato mi ha guardato come dire “ma come hai fatto?”. Quando gli ho fatto intendere che il problema era il numero e non il nome utente+password, e che il numero potevi testarlo direttamente componendolo sul telefono, senza bisogno di aggeggiare intorno al modem, è rimasto affascinato.

Alla fine ce l’abbiamo fatta, l’ho praticamente guidato passo passo, ma senza di lui non sarei mai stato in grado di spiegarmi col servizio clienti della compagnia telefonica: la sua disponibilità ha superato di gran lunga quella che era più impacciataggine che sicumera.