Venerdì 19 settembre

Ramadan, episodi 6 – Diario dalla palestina 61

Effettivamente durante il Ramadan le strade sono completamente deserte fin dalle 6 di sera, nessuno gira per strada e tutti i negozi sono chiusi. Tutti con un’eccezione: i panifici. Dato che i mussulmani non possono mangiare durante il giorno, gli è inutile preparare il pane alla mattina, così cominciano la propria attività al tramonto e vanno avanti per rifornire di pane anche a chi si sveglierà alle 3 di mattina dell’indomani per mangiare prima dell’inizio del digiuno.

L’altra sera mi sono fermato a uno di questi forni per comprare lo shrak, il pane a piadina che in Europa si usa per il kebab: il fornaio non parlava una parola d’inglese, allora nel poco arabo che so, ho abbozzato: «dare pane shrak!». Lui me l’ha preso. Ho chiesto: «caldo?» – lui, per tutta risposta, ha preso queste sfoglie di pane arrotolate, mi ha afferrato il polso e ce l’ha sbattute contro. In effetti era caldo.

Giovedì 18 settembre

Disegnami una pecora- Diario dalla Palestina 60

Oggi abbiamo fatto talmente tante cose che a raccontarle tutte ci vorrà una settimana: intanto il racconto del Piccolo Principe sta venendo proprio bene, Ahlam è proprio brava a raccontare, aggiunge del suo, e tutti capiscono.

Ecco qui un esempio filmato, cosicché possiate apprezzare il talento:

Stampiamo sempre tutte le immagini e i bimbi sono sempre ansiosi di vedere qual è la prossima figura:

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E io come faccio a seguire, mi hanno chiesto in tanti? in genere sono il dispensatore di figure, e il domandatore. Nel senso che ovviamente non capisco tutto, però le poche parole che ho imparato mi sono sufficienti per seguire sul testo inglese (che ho sotto) a che riga siamo, così da poter proporre il disegno necessario, o una domanda che mi ronza in testa al momento giusto; domande alle quali i bimbi rispondono con stupefacente acribìa.

Qui un’altra inquadratura:
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Io sono veramente sorpreso di come tutti i bambini siano attenti e cerchino di seguire la storia, senza distrarsi: a un certo punto – in un momento di particolare suspance, il quarto disegno della pecora – vista l’attenzione quasi ossessiva, Ahlam mi ha detto soltanto sei parole in inglese, come cenno d’intesa: «this is exactly what we want». Questo è esattamente ciò che vogliamo. Lana, che voleva la continuazione della storia, non ha sopportato neanche questo fulmineo intermezzo: «Halas inglizi, yalla», ha detto. Basta inglese, daje!

Mercoledì 17 settembre

Ramadan, episodi 5 – Diario dalla Palestina 59

Ieri, proprio mentre finivo di scrivere il post sul Piccolo Principe, s’è inceppato l’altoparlante del Muezzin che cantava per la fine del Ramadan, dopo un litigio furibondo (che ha sentito tutta Betlemme) con il suo compare, ha iniziato a fare «uno due tre prova», intervallato da preghiere cantate che interrompeva alla seconda parola perché si rendeva conto che veniva fuori solo un suono metallico. Poi di nuovo «uno due tre, prova». Una scena davvero comica.

Alla fine, proprio quando pareva aver rinunciato e io mi stavo augurando che la gente iniziasse a mangiare ugualmente, il Muezzin deve aver anticipato il mio pensiero, e dopo 5 minuti di silenzio – oramai venti minuti dopo il tramonto – ha riniziato, e nonostante il disturbo permanesse ha cantato l’intera inintelligibile preghiera: come a dire – «vabbè, strafogatevi!».

Martedì 16 settembre

Sul cappello – Diario dalla Palestina 58

È un po’ che non racconto dei bambini, le motivazioni sono molte: intanto questa è una fase di transizione fra due diversi regimi di trasporti, quindi spesso le beghe organizzative hanno preso il sopravvento sulle attività. Dopodiché, dato il Ramadan e il digiuno, molti bambini sono stanchi e per questo vengono molto limitate le attività di gioco all’aperto, che giocoforza sono quelle più ritraibili in foto. E un po’ anche per l’incidente che mi ha costretto a rinunciare alle improvvisate partite di pallone.

Così oggi ho deciso di pubblicare subito le attività che abbiamo fatto, senza pensarci: Reem, Ahmed e Yazan non erano presenti quando avevamo fatto il gioco delle differenze, così – saputone dagli altri – hanno voluto la replica, tutta per loro.
Mentre Tina, Rowan e Mohammed facevano da spalla a Ahlam e me, ho improvvisato questa postazione:

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Yazan, che è il secchioncello del gruppo, la prende molto seriamente:

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Reem, invece, ne ride.

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Contro ogni pronostico ha invece vinto… Ahmed!

Poi, dopo una mano a carte (“Uno“, importato dall’Italia poche settimane fa, ha spopolato insieme a un altro gioco scemo, ma molto divertente, che mi ero inventato al mare da bambino) siamo passati all’attività principale, che aspettavamo da tempo.

Dopo infinite peregrinazioni (ci credete che in tutta Betlemme non esiste una libreria?) sono riuscito a trovare il Piccolo Principe in arabo, ovviamente ad Ahlam è piaciuto tantissimo, ed eccoci quindi con il primo capitolo. La scena del boa che ingoia un elefante è molto piaciuta, e fra le ipotesi su cosa fosse (ho stampato un foglio per ciascuno), nessuno ha azzardato il copricapo. Anche se Mohammed ha commentato «ecco sì», quando Exupery racconta degli adulti che lo prendono per un cappello.

Svelato l’arcano, la spiegazione e il disegno (stampato anche quello) di cosa fosse in realtà hanno convinto pressoché tutti. E, finito il capitolo, ho chiesto ai bimbi se secondo loro io e Ahlam fossimo diventati degli adulti, o fossimo ancora dei bambini: all’unanimità e per acclamazione è stato deciso che sia io che lei siamo universalmente bambini!
Proprio in quel momento è entrato Nabil, e Rowan – prima che chiunque altro prendesse possesso della scena – gli ha sbattuto in faccia il disegno del boa dal di fuori chiedendo cos’è?

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Lascio a voi immaginare il fragore e la durata della risata generale che è scoppiata ai danni dello sgomento Nabil quando ha risposto, come fosse la cosa più naturale del mondo: «Un cappello».

C’è chi ha voluto una copia dei disegni per fare lo stesso test a casa, ai propri genitori.

Lunedì 15 settembre

Ramadan, episodi 4/? – Diario dalla Palestina 57

Qualche espediente per rendere meno intollerabile il Ramadan c’è; uno di questi è l’utilizzo dell’ora solare con il principio contrario – ovvero di risparmio energetico – a quello con cui si usa l’ora legale nel resto del mondo: solitamente si ritarda il più possibile il ritorno all’ora solare per guadagnare luce, qui si anticipa l’ora solare per anticipare il tramonto.

Considerato anche il fatto che il fuso orario qui è piuttosto spostato verso l’Europa (una sola ora di differenza) rispetto al suo asse naturale, succede così che l’alba sia verso le 4 del mattino – tutti mangiano, poi tornano a dormire – e ci si sveglia verso le 8, portando così via 4 ore di sonno al digiuno. Siamo anche un poco più a sud dell’Italia cosicché prima delle sei c’è già il tramonto, circostanza abbastanza particolare essendo in estate.

Ovviamente il fatto che quello che è per metà lo stesso stato, e per metà lo stato nemico – ovvero Israele – adotti l’ora legale alla maniera europea crea non poche confusioni, specie nelle zone dove la giurisdizione è mista o in quelle dove il confine è molto prossimo, come Betlemme. Più volte mi è capitato di confondermi nei mei pellegrinaggi a Gerusalemme, o in altre parti della Palestina dove c’è ancora l’esercito israeliano. E non sono l’unico.

C’è anche chi dice che, come per la scelta dei giorni festivi (il venerdì e la domenica, potete immaginare che strano week-end!) molta parte di questa decisione risieda nel volersi distinguere da Israele e dagli ebrei. Voi festeggiate di sabato? Noi evitiamo il sabato, a costo di avere il week-end spezzato. Voi cambiate l’ora? Noi la cambiamo cos’à, anche a costo di perdere luce. È del resto vero che anche quando non c’è il Ramadan di mezzo, nei territori dell’ANP il cambio d’orario è indipendente.
Come vale per molte altre cose credo che anche qui ragioni religiose (il venerdì festivo per i mussulmani e la domenica per il 2% di cristiani, e l’anticipazione del tramonto per il Ramadan) e ragioni identitarie (volersi distinguere, sia come stato indipendente e autosufficiente, sia come diverso dal “nemico”) si fondano.

Tutto tornerà a combaciare a ottobre (intanto qui ho la stessa ora dell’Italia!), quando anche Israele riadotterà l’ora solare, mettendo fine ai possibili malintesi.
Fino a quella data c’è ancora tempo, però, perché accadano fatti particolari come quello che successe il 5 settembre del 1999: tre terroristi palestinesi stavano portando delle auto-bomba, fabbricate nei Territori, in Israele per farle esplodere nell’ora di maggior affollamento nei mercati di Haifa e Tiberiade.
Soltanto che, appunto, non avendo considerato il fatto che l’orario sionista viaggiava con un’ora di anticipo su quello di fabbricazione degli ordigni, le bombe scoppiarono per strada, con i tre attentatori come uniche vittime.

Il colmo è che questi non erano attentatori-kamikaze, non avevano intenzione di uccidersi con l’innesco, come altri. Questa prestazione valse loro un Darwin Award, premio che – come recita l’epigrafe – onora coloro che migliorano la specie umana… semplicemente rimuovendosi da essa.

Sabato 13 settembre

Ramadan, episodi 3/? – Diario dalla Palestina 56

In teoria lo sapevo già in Europa cosa fosse il Ramadan, però poi succede che uno non ci rifletta troppo su cosa vogliano dire, veramente e in pratica, molte cose. Così molte domande uno se le fa, solo quando vede tali cose con i propri occhi: è così che mi sono domandato, quando ho confrontato il caldo che c’era con il non poter bere per più di dodici ore: «ma anche i bambini devono farlo? E i malati?».

Per quanto riguarda i malati, questi sono almeno teoricamente dispensati, si dice che “appena sono in condizione” debbano riprendere il digiuno. Ovviamente quando c’è un limite non ben definito, i più zelanti ne circoscrivono al minimo l’estensione, così capiterà sicuramente che qualcuno si faccia (e imponga) del male per rispettare la volontà divina, ma è un bene che almeno di fronte alla malattia siano contemplate le eccezioni: in genere l’emisfero delle eccezioni è lo stesso emisfero del buon senso.

Per i bambini la questione è un po’ più complicata, e a occhio crudele. Sono poche le famiglie che li costringano al rispetto del Ramadan, almeno fino ai 10-12 anni; ma sono altrettanto pochi i bambini che rinuncino a seguire il digiuno – per sentirsi grandi, per emulare i genitori – disposizione d’animo, “purezza”, che solitamente è molto apprezzata dai familiari. Perciò finisce che anche molti bambini osservino il digiuno.

Ovviamente nel modo in cui può farlo un bambino, con quella certezza cieca delle verità, ma anche senza la percezione del dovere e della sacralità. Perché la sacralità è ancora quella dei propri bisogni: l’altro giorno, un paio d’ore prima del tramonto, Mohammed ha preso un foglio di carta e l’ha arrotolato come a imitare un altoparlante di quelli che circondano le moschee, poi ha iniziato a gridare, a modo di preghiera «Allah Akbar», «Allah Akbar». Simulava la preghiera di fine del Ramadan. Inizialmente non capivamo, poi ha bofonchiato: «ma quanto ci mette, ho fame!»

Venerdì 12 settembre

Bob Verdura – Diario dalla Palestina 55

No, Bob Verdura non è il nome di un pugile italo-americano che ho incontrato in Palestina: il bob è quell’aggeggio che scende veloce veloce su una pista ghiacciata alle olimpiadi invernali e fa tanto rumore grattando sul ghiaccio.
Se avete visto quel film della Disney, che in italiano si chiamava “4 sotto zero”, sulla prima squadra olimpionica di bob della Jamaica (!) inizierete a intuire cosa possa avere a che fare con la verdura, e con la Palestina.

A Betlemme ci sono due piazze, una è quella della Natività (della Mangiatoia, in realtà), l’altra è quella chiamata da tutti Cinemà, con l’accento sulla A: perché un tempo c’era un cinema, che è andato bruciato (senza dolo), e per tutti è rimasto tale.
Queste piazze sono collegate da due strade, una in salita e una in discesa – dirà il lettore attento: «ma non è possibile!»

Difatti quasi tutto ha una ragione, e questo è così perché all’inizio della seconda strada c’è un salitone enorme, con una pendenza – in certi punti – intorno al 20%, così pendente da portare la strada a una tale altezza che, poi, deve solo scendere dolcemente. Come diceva quello lì, quello greco, ogni salita è anche una discesa. Così quando l’altro giorno sono comparsi ‘sti ragazzi che con delle casse da verdura (!) si arrampicavano su questo salitone… non ci è voluto molto per capire cosa volessero fare!

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Quelle casse sulla pietra facevano un baccano incredibile, e – davvero – simile a quello del bob sul ghiaccio.
Accortisi di me, e accortisi poi della mia macchina fotografica, hanno iniziato a improvvisare tutto ciò che potesse compiacere lo straniero e il suo obiettivo: gare, saluti a braccia alzate all’arrivo, etc.

(le foto si ingrandiscono con un click)

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Tutto questo succedeva qualche sera fa, quando l’ammaccatura alla mia gamba era ancora là da venire. Così quando m’hanno sfidato, per vedere se avevo il coraggio di emulare le loro gesta… non ho potuto esimermi:

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Ecco: a dire la verità avrebbe avuto molto più senso farmi male così, alla gamba.

Alla fine la gara, tutti insieme. Naturalmente – come immortalato da questa foto, e nonostante tentativi di strattonamento ben evidenziati dalle immagini – ho vinto!

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Speriamo che questo infortunio non mi precluda la possibilità di partecipare alle olimpiadi…

Giovedì 11 settembre

Alla viva il parroco – Diario dalla Palestina 54

Di grande sostegno dopo l’incidente sono state le Suore figlie di Sant’Anna: la difficoltà della lunghezza di questo nome è nulla in confronto alla difficoltà del comprendere le regole che ordinano i nomi di ciscuna di queste suore. “Funziona” che tutte, quando si ordinano, prendono il nome di Anna (quindi se ti chiami Genoveffa, diventi Anna Genoveffa, se ti chiami Anna, diventi Anna Anna). Però, pare facile: non tutte hanno conservato il proprio nome, quindi se sei diventata suora prima del Concilio non solo diventi Anna Genoveffa (se da non suora ti chiamavi Genoveffa), ma diventi anche Anna Ermengarda (per dire), o Anna Marcella.

Mi hanno anche spiegato che è ovvio che prendano il nome di Anna, perché sono le figlie di Sant’Anna… mica le sorelle di Sant’Anna (quelle sono un altro ordine). Non sono stato a obiettare, che tutta questa ovvietà non la vedevo, perché io mi chiamo Giovanni, mica Flaminia Giovanni. E mia madre si chiama Flaminia, mica Vittoria Flaminia (e quindi io dovrei chiamarmi Vittoria Flaminia Giovanni?). Finito qua? Se! Magari. Nel Convento delle suore di Sant’Anna – avrò sicuramente sbagliato a mettere la maiuscola su convento e a non metterla su Suore – c’è anche una suora non di Sant’Anna, che quindi non ha preso il nome di Sant’Anna. Quindi direte voi miei piccoli lettori «si chiama come si chiamava». Anvece no! Si chiamava Concetta, e ora si chiama Bernadetta. Farò presto luce su questo ultimo aspetto, se quando si cambia nome da suora bisogni prendere un nuovo nome che faccia rima col precedente, come Concetta e Bernadetta.

Ebbene, oltre ad avermi rimpinzato di cibo, mi hanno coccolato come un figlio (di Sant’Anna?) e riaccompagnato a casa (non camminavo) con una macchina a cui l’indomani sono completamente saltati i freni mentre era in moto, ma questa è un’altra storia.
Avevo promesso loro di tornare a trovarle quando mi fossi rimesso in sesto almeno un po’: e quale miglior occasione della partita dell’Italia per vederla tutti insieme?
Perché dovete sapere che queste suore sono molto tecnologiche, hanno internet, l’Adsl (qui è abbastanza una rarità), e il satellite con la RAI.

Quindi eccomi ieri baldanzoso e un po’ zoppicante, presentarmi in convento, dove è già prevista la postazione con tanto di semi di zucca (dovete sapere che oltre a essere molto tecnologiche, queste suore sono anche molto premurose). In convento c’erano suor Anna Samia (che prima si chiamava Samia), suor Anna Anà (che prima si chiamava Anà), e suor Anna Clementina (che prima si chiamava… Carmela, eh sì, ve l’ho detto che è complicato) e che è un po’ il capo universale del mondo delle suore. Mancava (non Anna) Concetta-Bernadetta, che è anche la preparatrice dei migliori manicaretti.

Ecco, l’esperienza di vedere una partita della nazionale con le suore è qualcosa di surrealmente (parola inventata) fantastico. Samia non aveva mai visto una partita, manco la finale dei mondiali che – diamine – è quasi impossibile non essere trascinati a vedere, almeno da qualcuno, almeno una volta. Ogni palla che oltrepassava la metà campo, ma anche ben lontana dall’area di rigore chiedeva «è gol?», quando le spiegavamo che no, ci ricordava che non poteva «capire tutto»: era la prima volta che vedeva una partita! Clementina, invece,  gridava al rigore ogni volta che c’era un fallo a centrocampo, e commentava gli errori di Del Piero come dovuti al non sufficiente riscaldamento.

Anà – la più giovane – era la più spettacolare, intanto ogni volta che la palla si alzava (dove per alzare si intende poco più che raso terra, a qualunque distanza dalla porta) diceva «ora segnano, ora segnano». Ed era quella che faceva i commenti più da intenditrice, ma completamente fuoriluogo: Dossena spazza in fallo laterale «eh, gli italiani sono stanchi». La Georgia fa tre passaggi di prima nella propria metà campo «se lo facessero dall’altra parte farebbero di sicuro gol». Un georgiano fa un intervento da macellaio, in scivolata su Pirlo, e lei si lamenta perché «questi georgiani (sic) si buttano sempre per terra, e fanno finta». Zambrotta fa un cross dal fondo e lei commenta «eh, l’ha fatto così il gol l’Italia».
Dopodiché mi ha detto che avrebbe tifato per un giocatore georgiano perché bello: perciò le ho dovuto ricordare che è una suora, mica si può!

Il bello è che, sebbene in teoria stessimo tutti tifando l’Italia, ogni volta che chiunque sbagliava un tiro, anche il più scaloffio, era un piovere di «noooo, poverinoooo». Fosse stato per loro la partita sarebbe finita 12 a 7. Alla fine – gli ultimi saranno i primi, no?- stavano tutte per la Georgia, e mi hanno fatto un discorso inoppugnabile sul fatto che anche loro si meritavano, si erano impegnati tanto, e vivevano sotto la guerra (proprio così)… Cosicché alla fine, ho finito anche io per tifare per il pareggio della Georgia e dispiacermi del 2-0 di De Rossi.

Devo rifarlo.

Mercoledì 10 settembre / sera

Fra il dire e il vedere – Diario dalla Palestina 53

…Continua da qui.

PO-PI PO-PI PO-PI (sarebbe il suono della sirena)
Avete presente Benny Hill? Tutto quello che succederebbe in una puntata del Benny Hill show, succede negli ospedali palestinesi. Eravamo all’arrivo di Nabil, ci si spiega, gli infermieri dell’ambulanza fanno quindi per portarmi in ospedale. Mi spiegano che devo salire lì. Ovviamente non ci riesco, non riesco a stare in piedi. Allora prendono la barella, la sistemano per bene, e riescono a farmi montare sull’ambulanza: stanno per chiudere il portellone quando gli faccio notare che il mio piede è fuori dal mezzo, se sbattono la porta ora – con il piede nel mezzo – non fanno la miglior cosa. Allora tirano indietro la barella, ancora, e tutto va a posto: lo ripeto, non è che le cose non funzionassero – anche poi in ospedale – erano perfette, ma chi le azionava sembrava un pizzaiolo partecipante alla trasmissione televisiva “fai l’infermiere per un giorno”. Semplicemente non avevano realizzato che fossi più alto dei pazienti che hanno di solito, quando gliel’ho fatto notare hanno subito aggiustato le cose.

Con me in ambulanza c’è un infermiere, l’altro è impegnato a guidare l’ambulanza nel peggior modo possibile, impennando su tutti i dossi di Beit Jalla (l’ospedale è in cima alla collina). L’infermiere mi spiega che devo tenere il ginocchio dritto, gli spiego che se lo tengo dritto mi fa male, allora in tono solenne mi dice che lo posso tenere piegato. Qualche minuto dopo mi ri-intima di tenere il ginocchio dritto, gli dico che è come 5 minuti prima, che se lo tengo dritto mi fa male, e piegato un po’ meno. «Ah, già» dice, e mi chiede scusa. Arriviamo.

OSPEDALE
Arriviamo lì e l’impressione è che non abbiano idea di quello che sta succedendo. Davvero, sono lì seduto sulla sedia a rotelle, con una gamba tutta viola ed escoriazioni sulla faccia, e sulle due gambe. Arriva un infermiere mi fa sedere su di un lettino: mi prende il polso per misurare la pressione, poi mi ficca un termometro sotto l’ascella per misurarmi la febbre!(!!)
Per fortuna arriva Nabil, riescono a capire che mi devono fare una lastra a questa benedetta gamba.
Attese attese attese, mi portano su e giù, nel frattempo varie persone sbattono contro la mia gamba sulla sedia a rotelle; dei vari guidatori che si susseguono al timone della sedia a rotelle, l’unico che non mi fa sbattere contro qualcuno è Nabil, che è anche l’unico a non far parte del personale medico. Avrò sbattuto almeno 8 volte, fra porte, persone, ascensori, macchinari.

Prima di entrare nella sala dei raggi X una signora inizia a farmi un po’ di domande in un inglese assurdo, che non mi sembra con accento arabo: un quarto d’ora dopo scoprirò che è orientale, direi filippina. Un quarto d’ora dopo, perché per tutto il tempo in cui mi parla, io sono stato piazzato precisamente con le spalle a lei, e a lei non viene minimamente in mente di girare la sedia, in modo da potermi parlare in faccia: sosteniamo questa conversazione così, come se fossi un caso umano (sulla sedia a rotelle!) del Maurizio Costanzo Show che non si vuole far riconoscere dagli spettatori a casa.

COMMISSARIATO
Dopo che la radiografia ha escluso fratture, andiamo a portare il referto alla polizia, e a comprare le medicine inopinatamente prescritte da uno sbadigliante primario (?). Arriviamo al commissariato, che è un palazzone con stanze spoglie e puzza di pipì: tutte le stanze sono uguali, vuote con un’immagine di Arafat. La stanza del capo è altrettanto spoglia, con solo alcune bandierine sulla scrivania (più grande delle altre scrivanie), in una stanza più grande, con una foto di Arafat più grande.

Quando arriviamo l’incidentatore sta rilasciando la propria testimonianza, dice che venivo dalla parte opposta a quella dalla quale venivo veramente, e che gli sono andato a sbattere contro io. Scoprirò poi che è in buona fede: non ha nessuna idea di ciò che sia successo, lui dice solo l’ipotesi che a lui pare più verosimile dal suo punto di (non) vista. Fanno entrare noi, alla presenza del tipo, io zoppico vistosamente e non riesco a camminare e per fare le scale avrei bisogno di due persone. Tuttavia basta un’occhiata alla mia gamba, alla bici tutta piegata, o al referto dell’ospedale per dimostrare che la sua versione sta in piedi meno di me (fossi venuto da dove dice lui mi sarei fatto male, semmai, all’altra gamba). Il poliziotto che ci accoglie mi chiede cosa richiedo da lui: dico che a me basta che lui dica come siano andate veramente le cose, che paghi le spese mediche, e che mi riaggiusti la bici, non voglio mica danni morali o che.

In questo momento lui capisce di essere in una condizione di enorme sfavore, e acconsente alle mie richieste. Tuttavia anche il poliziotto capisce la sua situazione di sfavore, e vuole “fargliela pagare”. Letteralmente. Insomma, è più o meno norma della polizia di qui “farci la cresta”, ovvero guadagnare in qualche modo sul soccombente, in questo caso lui. Ci fanno compilare tre volte, in tre diversi uffici, tre verbali esattamente identici, anzi li compilano loro: mi chiedono, fra l’altro, come si chiama mio padre, e qual è la mia religione. È proprio l’elemento religioso che diventa protagonista dell’ultima parte di racconto. In uno dei vari burocratici cambi d’ufficio (per ognuno c’è un’attesa di 15 minuti) Nabil e il tale si presentano: basta il nome perché Nabil capisca che è cristiano «è cristiano, è una brava persona», mi dice. Quindi mi chiede se vogliamo creargli qualche problema.

Gli rispondo che no, figurarsi, tantopiù che ha ammesso di aver fatto una minchiata assurda. Mi dimentico di dire che sarebbe stato lo stesso, per me, se fosse stato mussulmano.
Così da quel momento in poi si invertono le parti, io Nabil e il guidatore che ci prodighiamo per fare sì che lui non abbia la multa e che la polizia non gli crei problemi. Alla fine Nabil riesce a parlare con il capo, e con una via di mezzo fra il ritiro della denuncia, e “le parti si accordano”, riusciamo a non creare problemi a questo cristiano. Lui ci è molto grato.

Restituisce i soldi delle spese mediche a Nabil (per la vostra curiosità, circa 60 euro) e prende la bici per portarla ad aggiustare da un suo amico a Beit Sahour – anche se, per come è messa, dubito che riuscirà a cavarne qualcosa.

NUN CE VO STA’
Uscendo dal commissariato lui chiede a Nabil di andare a vedere la macchina. Nabil, con la faccia da questo-è-matto-davvero-allora, mi chiede di aspettare lì (non cammino ancora decentemente). Io mi dico che non è possibile che dopo tutta questa faccenda, lui ancora non si sia reso conto di quale fosse stata la dinamica effettiva. Invece Nabil torna poco dopo esclamando: «questo non ha visto assolutamente NULLA!».

Il racconto sarebbe finito qui se non fosse che, in una subitanea presa di coscienza del proprio inconscio, l’infermiere che mi aveva testato la febbre si deve essere reso conto dell’inutilità dell’operazione tanto da dimenticarsi (!) del termometro addosso a me: lo conserverò come ricordo e trofeo di questa esperienza.

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P.s. Il termometro segna (e segnerà sempre) 36.9: va’ a vedere che ce l’avevo davvero, la febbre!

Mercoledì 10 settembre / mattina

Incidentalmente – Diario dalla Palestina 52

Ecco il racconto, e le spiegazioni promesse: ebbene, fui profeta delle mie sventure quando dissi che la cosa più pericolosa della Palestina sono gli autisti.

LA SCENDA DEL DELITTO
Succede questo: mi trovo a un incrocio, per andare in ufficio. Qui non esistono sensi unici sensi di marcia, buon sensi, esiste solo la legge del più forte (non è che a Roma sia così diverso…); ed io, essendo in bici, sono ben lungi dall’essere il più forte. Quindi uno arriva lì, e aspeeeetta aspetta. Io aspeeetto aspetto. Anzi no, aspetto pochissimo, perché in quel momento la strada non è così trafficata, e c’è un buon samaritano (che poi si scoprirà non samaritano, ma cristiano – oltre che pazzo) che si ferma. Pare aspettare il mio passaggio (si scoprirà poi che stava giocando al cellulare o chissà cosa). Insomma – col senno del poi non si capirà perché si ferma – è gentile, pare, io impegno la sede stradale per andare dove devo andare. Nel frattempo sopraggiunge un taxi che sta andando nella direzione opposta alla mia, e che è evidentemente stupito anche lui dalla gentilezza del cristiano (capiremo poi perché è rilevante questo dato), così passa anche lui (SCENA 1).
Pazzo/non-più-samaritano/cristiano si risveglia dal suo torpore, vede (?) passare il taxi, e – fermo com’è – decide di accellelare a più non posso. Considerato il fatto che io partivo da fermo e il taxi scendeva a tutta birra, e considerato che io avevo una bici e lui una macchina, è normale figurarsi che quando il Taxi ha percorso tutta la traiettoria della sua curva io stia ancora completando la mia: è così che il non guardante (che non stesse guardando la strada ne avremo certezza poi nel racconto, che cosa stesse invece guardando rimarrà un mistero imperituro) guidatore della macchina grigia preme il piede sull’accelleratore e viene a incocciare con la mia gamba e con la fiancata destra della mia povera bicicletta (SCENA 2).

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LA DINAMICA ‘PULITA’
Il simpatico autista non si rende conto di nulla, non c’è il minimo acceno di frenata – l’autista non sta guardando la strada – la macchina mi coglie in fase di accelerazione (però partendo da fermo, per fortuna!). Così sarà solo il rumore dell’impatto a fare sì che l’autista si accorga di ciò che succede. La bici si accartoccia e si ribalta, io sbatto col viso sull’asfalto (impatto con poche conseguenze), dalla parte opposta a quella da cui venivo. La macchina grigia si accosta, e l’autista si mostra sorpreso: quando arriva un poliziotto inizia a essere strafottente. Questi, chiama l’ambulanza. Nel poco arabo che capisco, mi rendo conto che il tipo che m’è venuto addosso non ha proprio idea di quello che sia successo, racconta alla polizia che io venivo dalla direzione opposta a quella da cui venivo in realtà: non si è accorto di nulla. Io sono ancora lì, mezzo seduto e mezzo sdraiato, sull’asfalto. Striscio fino a una lingua d’ombra (nessuno mi aiuta, non per cattiveria, perché non hanno idea di cosa fare – questo è un assaggio della fantozziana con la sanità palestinese), poi chiamo Nabil, è il tuttofare dell’organizzazione in cui lavoro, vive sopra l’ufficio, a pochi passi da lì. Arriva l’ambulanza: ancora nessuno parla inglese, abbozzo nel mio raccapricciante arabo: «Aspettare! Amicomio! Palestinese!». Mi capiscono. Nel tempo in cui arriva Nabil mi rendo conto che tutti coloro che hanno assistito all’incidente sono andati via, si è invece formato un capannello di guardoni che però sta a debita distanza. Arriva Nabil, da qui e per le prossime 4 ore, sarà il mio angelo custode.

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