Venerdì 15 agosto / mattina

5290 – Diario dalla Palestina  36

L’altro ieri ho edotto mia sorella su di una mia novella considerazione: questo è il momento in cui siamo più lontani nella nostra vita. Io sono stato in America due volte, una quando non era nata, e una con lei. Il secondo posto più lontano era appunto Israele e Palestina, ma ora che lei è in Islanda la nostra distanza si è allungata di molto. Quindi non siamo mai stati così lontani in vita nostra. L’indomani lei mi ha mandato questa foto:

Sì, anche io ci ho messo un po’ per capire che Ròm è Roma.

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Giovedì 14 agosto

Noi balliamo da sole – Diario dalla Palestina 35

L’altro giorno ero con i maschi a giocare fuori e la porta era chiusa, sono entrato per andare a prendere una cosa nello zaino, e ho trovato tutte le bambine – con la porta sprangata – che facevano un qualcosa di molto simile alla danza del ventre. Per qualche secondo le ho viste ballare così, poi si sono accorte di me e mi hanno buttato fuori, «barra!».

Mi ha stupito che in una società come questa perfino bambine di 7 o 8 anni abbiano già appreso questa consapevolezza del proprio genere, e questa padronanza della superficialità del proprio corpo. Poi ho pensato che è proprio il contrario, e che è endemico in una società più chiusa, l’atteggiarsi alla femminilità: che è di per sé una separazione di ruoli con l’uomo.

L’altra faccia della medaglia sono Mohammed, Ahmed, Jaber, che cercano in tutti i modi di evitare qualsiasi contatto con l’altro sesso. Non per pudore, quasi per ribrezzo: è una parola forte, ma – specie nel caso di Mohammed – è la più azzeccata: una volta ha interrotto un gioco per più di 5 minuti perché non voleva spartire una sedia con Rowan, cerca sempre di essere dall’altra parte della stanza.

Ora che abbiamo preso un po’ più di confidenza, le bimbe mi permettono di assistere ai loro balli, anche se più castigati – qui una breve tesimonianza dal nostro reporter:

Mercoledì 13 agosto

Nel frattempo la Fiorentina vinceva in Champions League – Diario dalla Palestina 34

In questi giorni sto scrivendo poco per due motivi in uno: approfittando della venuta di Angela e Davide, e soprattutto di Umberto, Angela, Gabriele e Plastic (vero-finto nome Andrea), sto girando molto: sono stato a Nablus, sono stato a Hebron (di cui racconterò), andrò a Jericho, sommando a questo le lezioni d’italiano non ho mai tempo per raccontare. Il secondo motivo da questo causato, è che non avendo i giorni liberi che di solito uso per preparare giochi o attività per l’indomani, ho meno da raccontare degli incontri con i bambini.

Eppure ieri è stata una giornata bella piena: dalle 10 e qualcosa a mezzogiorno e qualcosa ho fatto la lezione d’italiano. Finalmente sono riuscito ad avere il pennarello (qui ti propongono di fare un corso d’italiano e ti dànno un lavagnone dove non si puà scrivere, e una lavagna senza pennarelli), e a gestire la lezione come piace a me, in modo più partecipato e anche un po’ teatrale. Sono contento di ciò che n’è venuto fuori.

Sono poi andato dalle suore, corrono voci che le vogliono un po’ attaccate al quattrino, ma con me sono sempre state molto gentili e coprentimi di offerte, erano un po’ di giorni che dovevo andare a fare la raccolta dell’uva e ieri è stato il giorno. La mia altezza è particolarmente apprezzata per queste opere. Qui la foto del raccolto, la suora che siede accanto – si chiama Giacinta, per me “bella mia” – pensava che non mi volessi fare la foto assieme a lei, ed era quasi stupita che le avessi chiesto di esserci: le ho spiegato che sono un mangiapreti, mica un mangiasuore!

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Prima c’era stato il pranzo in cui ho fatto la figura di quello supercolto: l’imperscrutabilità del destino ha voluto che si parlasse delle due o tre cose che so bene, e insomma, ho fatto un figurone. E come è colto ‘sto Giovanni, e com’è colto ‘sto Giovanni. Certo che, se voglio mangiare e/o parlare italiano, vado lì.

Sono poi corso al centro, perché alle 4 avremmo avuto l’incontro e volevo preparare qualcosina, perché Ahlam sarebbe potuta arrivare in ritardo per la combo di un altro impegno+check point, Angela e Davide tornavano da Gerusalemme, e il CollettivoAUTONOMO (così sono memorizzati sul mio cellulare) da non ricordo dove. Dato l’elevato numero di volontari in questo periodo abbiamo convenuto con Ahlam di focalizzare più l’attenzione sui giochi, che sulle altre attività, riprendendo quest’ultime quando ci saranno meno poli d’attrazione (e disattenzione).

Rowan viene presa in giro dai due fratelli perché ha le lentiggini, ogni volta viene scura in volto e bisogna farle capire che è la più bella lo stesso: e glielo abbiamo detto, ma non funzionava. Allora le abbiamo chiesto chi fosse il più bello fra noi (e m’ha preferito Davide!), così Davide le ha raccontato di come anche lui veniva preso in giro perché basso. Alla fine Plastic, intenditore di donne, ha trovato la carta vincente: ha digitato su google Vanessa Incontrada in tutto lo splendore delle sue lentiggini. Ottima mossa.

Giochi, cazziatone, delusione. Giochi: un ruba bandiera palestinese con delle regole sgangherate, poi altri che avevamo già fatto. Cazziatone: c’è stato poi la mezz’ora di reprimenda da parte di Ahlam ai bambini perché in questi ultimi pochi giorni si stanno comportando peggio: cosa vuoldire? A me sembra che, principalmente, vogliano farsi notare dai vari volontari, e per questo delle volte cercano di distinguersi, di fare i preziosi, etc. La risposta dei bimbi è stata buona, e me l’aspettavo: in questo Ahlam è molto, molto brava a capire il momento e le parole giuste.

Delusione: la prima delusione che Amal mi ha dato è stata oggi, quando è stato commissionato ai bambini un disegno dal titolo “preghiamo tutti lo stesso Dio”. Era un’attività che avevamo programmato da un po’, e io avevo sempre espresso le mie riserve, usando proprio questa formula. Se è la prima delusione vuoldire che per ora mi è piaciuto tutto molto, più di quanto pensassi. Se è una delusione – però – vuoldire qualcosa. E specificatamente che un’associazione laica non dovrebbe permettersi questo. Perché si tratta di indottrinamento. Ci vorrebbe così tanto un bagno di laicità per questa società, per le donne, per i conflitti fra mussulmani e cristiani, per quelli fra mussulmani e ebrei, per gli uomini stessi, e questo qui è stato un piccolo passo in senso opposto: se è vero, come è vero, che i bambini a casa subiscono un’educazione molto invasiva sul tema, questa è una ragione per fare sì che almeno alla casa di Amal questo non succeda.
Non sopravvaluto la questione, ovviamente è una cosa minima, se l’avessi considerata una cosa importante mi sarei adoperato per impedirla, ma vorrei che non risuccedesse. Il colmo è che – mi è sembrato di capire – eravamo più o meno tutti d’accordo sul punto (in primis il Collettivo, ma anche sul non ripeterlo, Ahlam e Angela).

Poi la sera tutti al parking, che non è un parcheggio ma un parco. Anzi no, non si va là, ma si sta a parlare di Dio e di religione e religioni: da registrare il tenero tentativo di Umberto di avere la benedizione da parte dell’unica suora presente della sua relazione con Angela. Vive nel peccato!

Dopodiché all’una e mezza di notte sono tornato a casa, o meglio, c’ho provato, perché son riuscito a perdermi e mi sono ritrovato mezz’ora a girare in bici, finché non ho ritrovato una strada conosciuta e già che c’ero ho svoltato per il forno. E son riuscito a convincerli a vendermi il pane appena fatto, buono buono, caldo. Poi avevo sete e sono andato a cercare l’unica botteghina che so aperta alle 2 di notte, e l’ho trovata. C’era un ragazzetto della mia età che non parlava una parola d’inglese. Ho preso la Tapuzina al pompelmo, e lui ha iniziato a chiacchierare, la luce era spenta quando sono arrivato, sarò stato l’unico cliente da 3 ore: così ho sfoggiato quel poco di arabo che so, e gli ho spiegato che sono italiano, un volontario italiano, queste cose noiose… e lui scarta di lato e mi fa vedere una modella palestinese su google, e mi dice che è «’na bonazza». E io gli dico, ovviamente dovevo stare al gioco, gli dico che le italiane son più belle (potete immaginare la difficoltà nel trasmettere queste informazioni). Allora lui mi dice che no, son più belle le palestinesi, «anvedi questa» (che non era sto granché), dunque io dovevo rispondergli qualcosa, faccio tutto il giro per andare al suo computer, tronfio e convinto della mia e da bravo bacchettone moralista non mi viene in mente il nome di un’attrice bonazza che sia una. Colpo di genio, penso all’intuizione del Plastic di poche ore prima e scrivo “Vanessa Incontrada” e gli dico “quayes!” “good!”. Lui deve ammettere che effettivamente je l’ammolla e mi chiede: è italiana eh? E in quel momento mi rendo conto della magagna… Vanessa… Incontrada, esito due secondi e poi gli dico che «ehm… no, è spagnola».

Lui mi guarda con una faccia come dire: «e allora che cazzo stai a dì?».
E vado a dormire.

Domenica 10 agosto

Non fatece largo – Diario dalla Palestina 33

Nablus non mi ha entusiasmato, ci hanno fatto fare il solito giro da turisti che turisti non sono, la peggior strada del campo profughi, varie tombe dei martiri, etc.

Effettivamente l’ambiente è molto diverso da Betlemme, ma non ho mai avuto la percezione che qualcuno ci volesse far male o rapire, certo solo in quanto stranieri (e il paradosso è che lì non ci va nessuno che non sia dalla parte dei Palestinesi), quand’anche accompagnati, c’era chi ci mandava a quel paese – sarà che «fuck you» è l’unica cosa che sanno dire in inglese? – qualche bambino che ci tirava la verdura, etc.

Devo dire che mi sono trovato a disagio, un po’. Umberto e Angela (un’altra), insieme a Gabriele e Andrea, sono altri quattro volontari che sono venuti per due settimane. Al di là delle loro idee politiche, diverse dalle mie, il loro approccio alla città e alle cose che ci dicevano era completamente descrittivo, acritico. Questo ci ha portato ad ascoltare cose false, cose illogiche, e cose abominevoli.

Non era solamente un problema di partigineria, quella evidente, nel trascurare completamente le cose meno utili al proprio pensare – come il tappezzamento di manifesti di martiri, nessuna indignazione espressa per questo, ma tanta per cose oggettivamente molto più irrilevanti – ma quanto un problema di approccio, come dicevo in precedenza: l’ossessivo refrain del non giudicare e il giustificazionismo speculativo (se ha detto questo concetto allora l’avrà detto in questo senso).

Si è parlato della strada che i martiri hanno costruito per la Palestina, del controllo di Israele sui media, di peggio dell’Apartheid. Di bombardamenti indiscriminati su case, solo per terrorizzare (la mia domanda: ma quindi funziona? non abbiamo sempre detto, giustamente, che le azioni violente fomentano il terrorismo? è rimasta inevasa). Altro.

Il paradosso è che forse è stata proprio l’apertura a teorie non proprio ortodosse dei nostri compagni di ventura, a far sentire così a proprio agio il ragazzo che ci portava da esprimere tutti i suoi pensieri, anche quelli che solitamente non-si-dicono-agli-europei.

Per quello che abbiamo visto è un altro mondo: avremo visto sei donne per strada, in qualche ora, e nessuna da sola. Per quello che abbiamo visto, comunque: abbiamo vissuto poco la città, la gente.

L’unico momento in cui siamo stati a contatto con le persone è stato il check-point, quello da dove tutti i cittadini di Nablus devono passare per uscire dai dintorni della propria città. Un’attesa lunga, ma non feroce: questo per merito dei palestinesi lì in coda che, risucchiati in quella mandria lunga più di venti minuti, non erano né sfrontati né rassegnati, non volevano sfidare i soldati ma cercando di non far arrendere la propria voglia di vivere. Quel momento, forse in quella condivisione (ci volevano far passare avanti, a noi i soldati non avrebbero fatto problemi), mi è sembrato probabilmente l’unico in cui ho avuto la sensazione di aver vissuto Nablus; quei dialoghi sardonici, quegli scambi di battute con la gente in fila durante quel periodo di attesa imposta mi hanno tanto ricordato quel tipo di canzonatoria indolenza, tipicamente romana, che a me così piace. Che qui, dove violenza risponde a sopruso che risponde a violenza, ci vorrebbe sempre tanto.

E nei miei sogni di bambino me li sono immaginati tutti, proprio tutti, che iniziavano a cantare in coro «ma che ce frega, ma che ce ‘mporta…»

Venerdì 8 agosto

Buono – Diario dalla Palestina 32

Per varie vicissitudini smarrimenti e ritardi all’aeroporto è venuto a dormire a casa mia Gianluca, anzi Gianluca Enzo Buono più-giovane-presidente-del-consiglio-comunale-d’Italia, come si è presentato, eletto in quota UDC. La circostanza più assurda non è che sia venuto a dormire da me senza neanche che lo conoscessi, e attraverso un contatto comune che ho visto tre volte; no, la circostanza più assurda è che – almeno pare – una persona normale. Ha posizioni civili sulle coppie di fatto, discute in maniera intelligente e preparata, si rende conto di tutte le ridicolaggini scritte nella bibbia, e non direbbe mai che è “un libro pieno d’amore”, con i suoi milioni di morti. Ed è venuto qui a darsi da fare. Mi fate ‘sto favore? Invece di candidare Cuffaro (evabbè anche io un po’ di populismo, no?), dategli la presidenza del partito. Si diceva largo ai giovani? Chissà che anche i giovani di Rifondazione siano meglio di Ferrero.

Tutto questo per dire che son riuscito a parlar male di D’Alema anche in Palestina.

Domani vado a Nablus. Si dice che sia la capitale del fondamentalismo islamico in Palestina (dove Hebron è quella del fondamentalismo ebraico), saremo accompagnati da gente che conosce bene il posto.

Sicuramente ci sarà da raccontare, difficilmente in serata.

Giovedì 7 agosto

Umorismo palestinese /2 – Diario dalla Palestina 31

Altri tre racconti di umorismo palestinese, stavolta in salsa agrodolce.

Uno degli amici qui mi stava raccontando del cibo palestinese che – devo ammettere – è meno peggio di quanto pensassi, anzi c’è sto Za’atar che è una polverina che mi piace un sacco. E mi stava raccontando della pizza, appunto, con lo Za’atar: alla mia faccia un po’ stranita, come per garantirmene la bontà mi ha raccontato che durante la seconda intifada lui e suo zio si mangiavano quattro pizze giganti. Gli ho chiesto allora, perché proprio durante l’intifada, e mi ha risposto: «you know, throwing stones is tiring» – Sai, lanciare sassi è stancante…

***

Oggi ho incontrato anche un cristiano di Betlemme che ce l’ha a morte con i francescani. Non so cosa gli abbiano fatto, mi ha raccontato qualcosa, e qualche storia triste, di corruzione, della moglie malata di sclerosi, e dell’ostilità che incontra ogni volta che prova a chiedere un visto per andarla a curare all’estero: sono gli stessi palestinesi cristiani a cercare di ostracizzare le partenze degli altri cristiani, visto che vivono una sindrome da accerchiamento – un tempo erano il 20% nell’intera Palestina, ora sono il 2,5%. In questa storia disperata, ha trovato la voglia di scherzarci su: dice di voler essere il primo kamikaze cristiano, ma di non voler andare a farsi esplodere in Israele, ma negli stessi Territori occupati, a Betlemme, nel convento dei francescani…

***

Io soffro il caldo di notte, solitamente, e qui non è caldissimo, anzi è abbastanza freschino con tutte le finestre aperte la notte: non fosse per la chiamata del Muezzin alle 4 di notte si dormirebbe relativamente bene. Di giorno però è un caldo balordo, ci vorrebbe un bel venticello, «ci vorrebbe un uragano» diceva uno dei palestinesi che ho conosciuto «Così poi ci buttiamo in mezzo e magari ci ritroviamo al di là del muro, e possiamo fare una girata». «Per fare una girata o carichi di bombe? sarebbe una trovata per evitare i check-point», dico io. Lui: «No, ma non serve andarci, in quel caso, basta tirar le bombe in mezzo all’uragano e ci vanno da sole di là» Io domando: «E se invece di andare in Israele atterrano a Ramallah o Jenin?». E lui: «Beh, in quel caso sono martiri…».

Mercoledì 6 agosto

Andando alla deriva –  Diario dalla Palestina 30

Una raccolta di foto dei giochi fatti in questo periodo:

  • Non sapevano giocare a murino, gliel’ho insegnato. Però non c’è nulla da fare col pallone fra i piedi gli italiani so’ sempre i mejo. Qui spiego le regole:

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  • Il gioco dei marinai:

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  • Mosca cieca:

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  • Quando si gioca a mosca cieca, io sono sempre l’addetto al bendaggio; dicono sia bravissimo, né troppo largo, né troppo stretto – dovrei farlo da grande:

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  • Sempre mosca cieca, sembra la fuga di Mariana da Serena, ma se vi ricordate la dinamica del gioco, è l’opposto:

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  • Come avrete visto nella altre foto sono arrivati altri due volontari – Angela e Davide – che staranno con noi per due settimane, con loro avrò modo di fare anche un po’ di turismo – qui ognuno di noi con un bigliettino con il proprio nome (io Paco) per fare sì che Davide li memorizzasse prima, poi c’è stato il momento del test, e Davide (qui di spalle) li ha azzeccati tutti:

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  • Qui faccio l’anfitrione per un gruppo venuto a visitare la nostra associazione:

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  • Questa invece la foto di gruppo, la mia posizione è data dal tuffo plastico che mi ha portato ad entrare nella foto. Del cui atterraggio vedete il divertimento e il terrore sul volto di Tina, Ghaida e Reem:

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  • Qui sembra che faccia rap, invece è la spiegazione di un gioco inventato sul momento e che Angela mi ha spiegato esistere e chiamarsi palla a 7 (ehi, no, non fate i furbini, no è schiacciasette, quella è altra cosa):

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  • Confidate, anche se ora la palla è ai nostri acerrimi nemici, la stiamo per riconquistare:

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  • Alla fine m’hanno detto che non ci si può giocare, la mia squadra vince sempre …sono troppo alto:

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Poi ci sono i due giochi che sono piaciuti di più, ma quelli hanno bisogno di un capitolo a parte, e tutto per loro, perché necessitano di sofisticate spiegazioni: la corsa a ostacoli…e soprattutto la caccia al tesoro 2.0.

Martedì 5 agosto / sera

Pampini – Diario dalla Palestina 29

È incredibile come qui i bambini siano lasciati in libertà, una battuta sarcastica sarebbe: «tanto ne hanno così tanti che uno più uno meno…» (6 figli sono la norma, 10 non sono straordinari). Però la verità è che funziona, o così pare. Quando ci sono le uscite, per i mercati affollati, nessuno si preoccupa, se il gruppo di bambini si disperde, nessuno sta a contare che ci siano tutti. Fanno cose pericolosissime, si arrampicano su staccionate belle alte, prendono in mano fili spinati, cose per cui le mamme italiane morrebbero di crepacuore. E non si fanno mai male

***

Potrebbe avere a che fare con questa inclinazione alle cose pericolose il fatto che l’unica parola araba che mi è entrata nella testa – e da almeno 5 giorni – è “no”, la. Alle altre parole ci devo pensare, o comunque devo scegliere di usarle. La, invece lo dico automaticamente, è la prima cosa che mi viene, anche se sto parlando in italiano o inglese, più volte mi è capitato che mi scappasse un «la». Sarà che lavoro con i bambini particolarmente scapestrati (vivaci, direbbe un’insegnante con gli occhiali, e un po’ trombona), sarà che con tutte le cose che ti offrono – ovunque tu vada – è assolutamente necessario dire di no, perché alla prima esitazione sei ricoperto di cibo, regali, profferte, sarà quel che sarà, ma quando è la è la.

***

Tesi, antitesi e sintesi. I bambini hanno detto che Giovanni è troppo difficile, e mi hanno chiesto se ho un soprannome, invitandomi a nozze perché farmi chiamare Paco mi piace, e piace anche a loro, sembra. Così mi chiamano Paco, anzi Baco, perché la p e la b in arabo si confondono: non sono stato a spiegar loro che baco, in italiano, è un’altra cosa.

Martedì 5 agosto / mattina

Eterogenesi dei fini – Diario dalla Palestina 28

Ho visto un barbone palestinese – non ne avevo visti di barboni palestinesi, avevo visto dei barboni israeliani, ma nessuno in Palestina. Era una serata particolarmente ventosa ieri, e Betlemme è abbastanza alta. Questo senzatetto ha raccolto i suoi cartoni, ha scavalcato stancamente la recinzione tutt’altro che sorvegliata, ha sdraiato le sue “coperte” contro quei piloni alti e grigi proprio dove c’era un graffito che diceva “Jesus will tear down this wall”, e si è messo a dormire. Acquattato sul muro, così, al riparo dal vento.

Lunedì 4 agosto

Dalla parte del più forte – Diario dalla Palestina 27

Ieri ero in un covo, c’era tutta questa gente molto multiculturale, molto europea, tremendamente occidentale, che faceva a gara a chi era più rispettoso delle culture altrui, dei soprusi altrui. Dopo molto tribolare una greca ha detto con una voce da perfetto film di Verdone che lei rispettava questa cultura, e se le donne non potevano fumare per strada lei mica avrebbe giudicato negativamente, avrebbe rispettato questa cultura;

Dopo molti pareri di questo tipo una voce per molto tempo repressa – la mia – ha squarciato il silenzio: «saranno molto contente che tu rispetti la loro cultura, le donne che subiscono questo sopruso, ti saranno certamente molto grate per il tuo mellifluo* rispetto» ho detto «ma vi rendete conto di quanto siete irrispettosi con il vostro supposto rispettare, che vuoldire rispettare solamente la legge del più forte, e voltare le spalle ai più deboli – le donne, gli omosessuali, le minoranze. Vi rendete conto di quanto siete razzisti a porvi su di un piano morale diverso, permettendo a chi è in un’altra cultura cose che non permettereste mai, mai, a voi stessi, ai vostri amici, ai vostri connazionali? Quanto lo siete a ragionare in termini di responsabilità collettive, a considerare vostra la cultura dei diritti alle donne, della libertà della scelta, e invece cultura degli altri – inevitabilmente inferiori, da trattare quali bestie da lasciar sfogare – quella dei soprusi, del maschilismo, dell’omofobìa?».

Walla, giuro: ci sono stati 15 secondi in cui nessuno ha detto nulla, quindici secondi di silenzio assoluto; poi una ragazza ha timidamente accennato, quasi sussurando «io non sono d’accordo». Nient’altro, e tutti gli altri zitti.

*no, in realtà mellifluo non l’ho detto – poi mica lo so com’è in inglese – ma era solo per fare piacere a Filippo.