Antecedenti – quest’anno passato invano – Diario dalla Palestina 1
Comincio questo Diario dalla Palestina ancora non arrivatoci, per aggiornare quello che avevo scritto qui, su cosa ho fatto nel frattempo, sul perché non sono più uno studente, sul perché fare qualcosa, e sul perché farlo in Palestina.
Il blog è stato aperto fra ottobre e novembre, pensavo che la partenza fosse imminente, e invece non lo è stata. Per fortuna ho trovato delle altre cose da fare, mentre tentavo di trovare un modo, un dispositivo e uno spirito per vestirmi di quella parola che ancora mi fa paura: volontariato. Dico per fortuna, perché la ricerca è stata più che inaspettatamente perigliosa e se non avessi trovato dei diversivi probabilmente avrei rinunciato.
Non sono più uno studente per un motivo semplice, che non avevo più voglia di studiare. Lo scrissi già, l’inerzia entusiasta – ma calante – della laurea mi aveva fatto cominciare la specializzazione, fatta più per circostanze che per voglia. Non volevo, e forse non sarei stato in grado di, fare il professore: la presa di coscienza fu tardiva perché tanti – dentro e fuori l’ateneo – mi avevano cucito addosso quel ruolo. Decisi che non volevo continuare l’università ma non sapevo cosa fare, di certo senza la voglia non avrei avuto lo zelo di fare il dottorato. Più o meno in contemporanea con l’apertura di questo blog, smisi: anche senza un’alternativa, era meglio perdere tempo a cercare un’alternativa, che a dare svogliati esami – inutili.
Nel frattempo, più per caso che per premeditazione, capitai in una scuola d’italiano per stranieri. Una struttura (dis)organizzata come piace a me. Si respira aria buona, perché non c’è la gara a chi è più buono, ognuno dà quello che vuole, sa e può. La cosa migliore, ovviamente, sono gli studenti: vedere la fila che si forma da un’ora e mezzo prima (!) della lezione, una coda di persone con una volontà di ferro e magari 12 ore di lavoro sfiancante sulle spalle, soltanto per seguire una lezione d’italiano fatta da gente molto lontana dall’essere un professionista, sarebbe il miglior anticorpo per quel fetido-mellifluo razzismo (della Lega, ma anche di Di Pietro) che dice che gli stranieri non vogliono lavorare, e che devono venire “prima gli italiani”, e gli stranieri – come merci – solo se gli abbiamo già trovato e stabilito un lavoro: deve venire prima chi se lo merita, un’occhiata a quella ressa, per stabilirlo, suggerirei.
Altrettanto per caso ho trovato un impiego quest’inverno, quello che con molto snobismo ho definito il mio – forse – unico lavoro proletario. Sono lontano dalla logica dell’esperienza, della formazione introiettata da qualunque fonte. Purtuttavia questa esperienza è stata veramente utile per me. Non so se sia la causa o l’effetto di questo ragionamento, ma ero molto più convinto gli ultimi giorni che il primo, quando avevo mille perplessità sull’opportunità dell’accettare o meno l’offerta. Si trattava di fare l’operatore sociale al tendone dei senza tetto. La cosiddetta “Emergenza freddo” allestita da dicembre a aprile dal comune di Roma per i barboni. Un ambiente così drammaticamente diverso dalla scuola, con un’utenza così sfinita, così lontana dalla comprensione, così coatta a ritrovarsi nella medesima condizione, senza via d’uscita. Ho capito il valore di quell’idea tanto americana che è la speranza. Quant’essa, la sua presenza o la sua assenza, facesse la differenza. Lì l’obiettivo era la riduzione del danno: fare sì che ciascuna di quelle persone superasse l’inverno – vivo – era una vittoria. Ho iniziato piano piano, fino ad arrivare a 40 ore a settimana negli ultimi due mesi, vegliando una notte sì e una no lì. C’era anche una componente di sfida a sé stessi? Forse, ma sicuramente non era la componente principale.
Nel frattempo, come per contrappasso del mio partire, ho provato a dedicarmi alla politica di casa mia, mi sono impegnato a momenti alterni con iMille, ho provato a dare una mano in campagna elettorale a Ivan Scalfarotto finendo per fare meno che nulla. Mi è servito a confermarmi (anacoluto rafforzativo) che non bisogna mai dire che tutti-sono-uguali, e che ci sono persone per bene che hanno l’acribia e la pazienza di fare politica, lui e lui fra gli altri, ma che io preferisco 4 ore di discorsi di Obama, che 15 minuti di rifiuti, buche nelle strade, e politica sul territorio.
Arrivato a giugno mi sono ritrovato tutto d’un colpo con tre possibilità fra le quali scegliere, e ho deciso di partire con Amal Italia (niente a che vedere con i terroristi libanesi) per i primi 3 mesi. La mia idea è quella di stare fra i 6 e i 9 mesi, 3 mesi con ciascuna delle associazioni. Ma mi aspetto di tutto, potrei decidere che voglio fermarmi lì 2 anni, oppure dopo un mese dire che mi sono stufato e tornare a casa.
Cosa farò non lo dico, perché lo racconterò via via: solamente che lavorerò con i più indifesi degli e dagli indifesi: i bambini palestinesi. Anche perché l’unica mia speranza per quella catastrofe è nelle persone, una per una e non nelle masse, l’unica mia speranza è nella prossima generazione. Starò a Dheisheh, un campo profughi vicino a Betlemme.
Perché lo faccio. Di là ne avevo scritto un po’ di più, di qua ne scrivo questo po’ di meno: non è la mia prima scelta, non è il mio sogno – ma non so qual sia il mio sogno. Nel frattempo, sono una persona che ha del tempo e allora do questo tempo. Non sono un missionario, non è la mia missione: mi mancherà tanto Pro evolution soccer.
(Segue primo post in Palestina – Diario dalla Palestina 2)
strano che al posto di “pro evolution soccer” non ci sia il mio nome..
nn puoi portarti dietro la Play?
Ti confesserò che non ho la Play
noi Pezzenti a casa ne abbiamo 2.
Meno male che ci sono i figli di papà annoiati, col senso di vuoto e tutto il repertorio classico , altrimenti ai poveri oggi chi ci penserebbe più?
aho, ti scopro ora.
Pensavo non aggiornassi piu’ il tuo blog.
Sapevo della partenza e ora sono contento di essere partecipe, seppur lontano.