Palla al Centro – Diario dalla Palestina 16
Jaber, Yazan e Hamsa sono tre fratelli. Vivono nel campo profughi di Aida, che sarebe una piccola cittadina di 5.000 abitanti a ridosso di Betlemme. Il campo profughi è il luogo dove è annidato il maggior risentimento, non c’è casa in cui non ci sia un poster di un attentatore suicida, di un Saddam Hussein o di un Nasrallah. Jaber è il più grande del gruppo dei più grandi, ha oramai 13 anni e ad Aida – come direbbe chi dice “spinello” – segue brutte frequentazioni.
Jaber, insomma, voleva fare lo shaeed, il martire, da grande. Sì, voleva perché dopo la visita all’università di Betlemme ha detto che anche lui voleva studiare…
Yazan soffre abbastanza dell’indubbio carisma del fratello e prova a imitarlo in ogni modo. Che sia per emulazione, o per disfida, convincere Jaber significa convincere Yazan.
Hamsa è molto più tranquillo, sembra, non ha l’atteggiamento aggressivo e violento di Yazan, né il carisma da bulletto di Jaber: è anche il più piccolo.
La madre, Ahlam anche lei, fa quel che può o è in grado di fare, il padre si limita a picchiare loro e la madre. Uno dei lavori che facciamo, con il pretesto dei bambini, è quello di cercare di far incontrare le madri che hanno questo tipo di problemi. Lui le vieta di uscire, pare, perché è già uscita una volta negli ultimi quindi giorni: mica può esagerare.
Allora ci siamo andati a parlare, e facevo male ad aspettarmi un atteggiamento strafottente, tutt’altro – mellifluo – e diceva che lui no, non vietava nulla alla moglie, che erano i figli che non volevano venire perché si annoiavano, e volevano stare all’aperto. Noi gli si è detto che potevano stare all’aperto e che io ero venuto dall’Italia proprio per giocare a pallone, figuriamoci; e che lui sapeva quanto piacesse giocare a pallone a Jaber.
Notavi subito poi, come teneva in considerazione me, perché maschio. E in nessuna considerazione l’educatrice che lavora con me, in quanto femmina. Lei sembrava esserci abituata, comunque, perché si prestava più a fare da interprete – quando in inglese non ci si capiva – che a dire il proprio parere. Su questo punto tornerò in un’altra pagina del Diario.
Devo dirmi bravo perché ero stato previdente, e m’ero messo la maglietta del Barcellona, e appena loro tre l’hanno vista – non li avevo ancora conosciuti – mi hanno detto che il Barcellona faceva proprio schifo, che il Real Madrid era molto meglio, figuriamoci. E allora io gli ho detto che «tsk, il Barcellona era molto più forte, e che li avrei stracciati quando mi pareva» e loro dicevano «vedremo», e io allora gli ho detto «che vedremo? Vediamo!». Loro erano abbastanza stupiti, perché insomma eravamo un po’ tutti seduti in questo cerimoniale cerimonioso. E io ho insistito: «prendete o no ‘sto pallone?»
Di porta in porta siamo riusciti a trovare un pallone e altri cinque giocatori, cosicché al fischio d’inizio di questo improvvisato derby di Spagna, ci siamo ritrovati in sette del Real Madrid, e in due – io e un bimbetto – nel Barcellona; voglio stimolare, ora, una preghiera per il povero ragazzino che deve vivere una vita di sofferenza, a essere l’unico della compagnia a tifare azul-grana, vilipeso da tutti, specie in questi ultimi anni di magra per il Barça.
Sarebbe certo bello raccontare che nonostante l’inferiorità numerica si sia vinto, che il povero Barcellona ridotto a due miseri elementi abbia sconfitto il ben più attrezzato Real Madrid, constante di bet sette giocatori schierati. Invece le cronache raccontano di un’amara sconfitta per 5 a 2, resa ancora più amara dal fatto che la partita dovesse finire a 3, ma il Real Madrid ci avesse concesso di continuarla fino a 5, per poi prendere altri due gol e farne zero.
Tuttavia quello che in Italia è il minimo indispensabile per essere ammesso alle partite, mi è valso una classificazione molto vicina al Fenomeno Assoluto, e questo – unito al fatto di essermi scoperto uno sfegatatissimo tifoso del Barcellona – hanno fatto sì che Jaber, e con lui Yazan e Hamsa, continuassero a venire al Centro, che poi è una scuola ma qui la si chiama Centro. Anche la madre, almeno per ora, sta venendo agli incontri assieme all’altra madre e all’educatrice (lo so che genera confusione il fatto che si chiamino entrambe Ahlam, sogno), la quale sta con loro mentre io intrattengo i bimbi. È molto brava, e mi sembra che sappia esattamente cosa dire e quando dirlo, quando starci e quando andarsene anche lei.
Ora so che voi tutti, miei piccoli lettori, vi aspettate un lieto fine, però non c’è un finale, quindi non può esser lieto. C’è da dire che ultimamente Jaber cerca molto meno la sfida, almeno con me, e sembra più conciliante nelle sue istanze: per dire, l’altro giorno voleva stare in squadra con me, che – oramai – non potevo recedere di un solo passo nel fare il Real Madrid con lui, né però poteva lui umiliarsi a tal punto da venire nel (da qualche giorno) mio Barça, quindi ha cercato un compromesso, ha proposto altre squadre, per vedere se c’era un labaro comune sotto la cui egida scagliarsi contro gli altri pargoli, e mi ha detto: «dài, facciamo che noi siamo Hamas, e loro sono Fatah».