marteDIcorsa 4 – Piuttosto perdo anch’io

marteDIcorsa
Volevo spiegare a degli amici che il ciclismo è lo sport più romantico che c’è, e allora ho provato a scrivere. E scrivere ciò che raccontavo scrivendo. Così, ogni martedì, per un mese. Io, per me, mi sono convinto. Anche troppo, a rileggere il tono troppo denso?

Piuttosto perdo anch’io…

Fu a Ouagadougou – l’unica capitale al mondo con due dittonghi e un trittongo – che Coppi contrasse la malaria. Si dice che ci fosse andato per racimolare qualche spicciolo a fine carriera, quando ormai non vinceva, quando vinceva Anquetil. Fu proprio lui, Maitre Jacques, ad avere in dotazione l’unica camera con le zanzariere. Aveva anche questi vantaggi essere il migliore della carovana, e il migliore era di certo lui: Jacques Anquetil. Anquetil vinceva. Anquetil stravinceva, e il pubblico amava Poulidor.
In Francia Raymond Poulidor è quasi un modo di dire: era la manifestazione che più si approssimava alla perfezione dell’eterno secondo, chiamato da tutti Poupou aveva un talento innato nell’essere battuto, fenomeno nel conquistare la seconda piazza, e – a onor del vero – bravissimo anche ad arrivare terzo. Riuscì a conquistare otto podi al Tour de France, mentre il suo rivale, primo nella storia, ne vinceva cinque. Ci riuscì senza mai vincerlo, e, cosa straordinaria per un corridore con tutti quei piazzamenti e una carriera lunga diciott’anni, senza mai indossare la maglia gialla, neanche un giorno.
C’era un altro modo di dire, però, fra i commentatori sportivi della Francia degli anni ’60: era una parola che definiva quel fenomeno apparentemente inspiegabile: le strade davano ragione a Anquetil, ma era sempre Poupou a trionfare. In una parola sola era la sua Poupoularité.
L’algido Anquetil costruiva le sue vittorie nelle prove contro il tempo, con una perfezione quasi maniacale: a cronometro era imbattibile, molto probabilmente il più forte di sempre. La sua andatura era perfetta, nessuna sbavatura, il ritmo altrettanto uniforme e senza sbalzi, la postura era addirittura aliena: correva la voce che gli si potesse mettere un calice pieno di champagne sulla schiena e in 60 km di corsa non ne sarebbe caduta neanche una goccia. In effetti era bellissimo da vedere, ma una volta sola: poi stufava. Sempre a cronometro superò il record dell’ora del Grande Fausto quattordici anni dopo. Fu soprannominato Monsieur Chrono. Poulidor provava la fuga, in montagna scattava, cercava di fare il vuoto, e Anquetil giocava in difesa. L’uno tentava di fare l’impresa, l’altro tentava di impedirla. Poi arrivava il giorno della cronometro, e Anquetil dominava, prendeva la maglia e la portava sul primo gradino del podio a Parigi, dove veniva puntualmente fischiato dai gli stessi tifosi francesi che amavano Poulidor. Si odiavano, fu la prima vera rivalità dopo Coppi e Bartali, ma più cattiva: erano gelosi l’uno dell’altro; si diceva che una sconfitta dell’avversario valesse più di una propria vittoria. Qualche anno dopo aver smesso di correre, Anquetil ammise che durante un Gran Premio delle Nazioni – una cronometro a coppie – dove i francesi avevano designato Anquetil-Poulidor come duo vincente, si finse stanco, e impostò un ritmo blando per far perdere il compagno rivale. La verità è che il coltivatore di fragole normanno, Anquetil (un particolare biografico che in verità starebbe meglio a PouPou), era invidiosissimo delle attenzioni che il pubblico rivolgeva a Poulidor, e questi non sopportava il pingue palmares di Anquetil. Nel ’65, assenti sia Anquetil che Merckx, si tenne al Tour la gara fra eterni secondi, e la vinse ancora una volta Raymond Poulidor, nel senso che la maglia gialla andò a Felice Gimondi davanti al francese, infallibilmente secondo.
Fatta salva la mestizia per la vittoria del rivale, e la gioia per una sua battuta d’arresto, la rivalità fra Moser e Saronni fu molto diversa da quella tutta francese degli anni 70. Qui il tifo era equamente diviso, e se bisogna dire chi avesse tifosi più calorosi, questi era sicuramente Francesco Moser, un corridore enormemente diverso da Poulidor. Il suo punto di forza erano le cronometro, in salita era troppo pesante, e portare la sua stazza allo scollinamento era spesso un calvario. Un perfetto corridore da corse di un giorno, e da pianura, un passistone che se la cavava anche allo sprint. Vinse infatti tre Parigi-Roubaix di fila, oltre a varie corse in linea, ma il suo cruccio era quello di vincere una grande corsa a tappe: il Giro. Si allenava tutto l’inverno sulle salite, gli si leggeva in faccia la fatica quando la strada incominciava a incresparsi. Ma il trentino non si dava per vinto, ci riprovava, cominciava a riallenarsi e a dare tutto per riuscire a portare a Milano quella tanto agognata maglia rosa. Dopo un quarto, un secondo e un terzo posto, nel ’79, sembrava essere arrivato il suo anno: grande favorito, aveva indossato la maglia rosa dal primo all’ottavo giorno, quando Giuseppe Saronni, che fino ad allora era stato più un velocista che altro, gliela aveva sfilata per portarla fino alla fine, proprio in una frazione a lui congeniale: una cronometro.
Fu così che nacque una rivalità che durò per tutti gli anni ’80. Caratterialmente erano diversissimi, Moser aperto e gigione, Saronni silenzioso e introverso, ma con la polemica sulla punta della lingua. Anche in corsa due antipodi, Moser si costuiva le vittorie da lontano, con esperienza e fatica, Saronni era quello che in gergo calcistico si sarebbe potuto definire un rapinatore d’area, non era un velocista puro, ma uno di quelli che dopo essere stato inoperoso nella pancia del gruppo per tutta una gara, a 2 km dall’arrivo ti piazzava una sparata micidiale che nessuno riusciva ad arginare. Moser era anche più limpido, Saronni in qualche modo più doppio, giocava sulla psicologia, riusciva a innervosire il proprio avversario: a ogni arrivo di tappa c’era una nuova polemica. Certo: c’erano volte in cui Saronni aveva tutte le ragioni di lamentarsi, qualche volta gli innamorati tifosi di Moser erano così innamorati che gli davano qualche spinta in salita per riuscire a portarlo in cima e Saronni il primo a denunciarli, qualche altra volta gli innamorati tifosi di Moser, erano così innamorati da non sopportare Saronni, se c’era una tappa impegnativa l’indomani andavano sotto la finestra della stanza in cui pernottava il novarese e iniziavano a cantare a squarciagola per non far dormire il rivale del proprio beniamino. I tifosi di Saronni erano più schivi, e forse più appagati con tutte quelle vittorie in zona Cesarini, ma come affetto difficilmente erano da meno. Di recente il padre di Alessandro Petacchi, il più forte velocista attualmente in attività, ha raccontato che sì, è contento quando vince il figlio, contentissimo, ma le vittorie di Beppe Saronni erano tutta un’altra cosa… Saronni era furbo, Moser sagace. Come quando vinse il suo primo e unico mondiale nel ’77: andarono via in tre, lui, Cuorematto Franco Bitossi, e il tedesco Tharau. Bitossi lavorò per il compagno di squadra, per poi staccarsi e accontentarsi del terzo posto, mentre Moser si avviava a una volata da grande favorito. Ma a 5 km dall’arrivo c’è il colpo di scena: l’italiano fora. A così poco dall’arrivo l’attesa dell’ammiraglia per il cambio della ruota può essere fatale, così Moser riesce a non far accorgere della propria foratura il compagno di fuga, si lascia sfilare in seconda posizione, e – furtivo – chiama l’ammiraglia. Quando la ruota di ricambio è pronta, si ferma fra la sorpresa di Tharau e in pochi secondi lo recupera per poi batterlo in volata.
È proprio al Campionato del Mondo che spesso ci sono le maggiori polemiche, perché per quell’unico giorno in tutto il calendario annuale le squadre sono rimescolate e possono trovarsi nella stessa nazionale acerrimi nemici, e – al contrario – può succedere che si trovino contro due corridori che sono sì avversari, ma per tutti gli altri giorni dell’anno sono nella stessa squadra, con i giochi tattichi che questo può comportare. Successe nel 1981 a Praga, quando nel gruppo che arriverà al traguardo si ritrovano ben otto italiani, fra cui il designato in caso di arrivo in volata: Saronni. Accade però che scatti lo scozzese Millar cosicché Baronchelli lo segua per marcarlo. C’è un compagno di squadra davanti con buone possibilità di vincere, quindi il galateo del ciclismo impone di non tirare per andare a prenderlo, ma Saronni, evidentemente convinto di essere il più veloce di quella trentina di corridori, aiutato dal proprio gregario Panizza, va a riprendere i fuggitivi. Quando Baronchelli si accorge che è stato un compagno di squadra ad andare a riprenderlo, gli rifiuta il proprio aiuto nella finale, decidendo così di tirare la volata a Moser. Saronni è però più svelto, e riesce a prendere la ruota di Baronchelli. A questo punto Baronchelli non ci sta, e si sposta. Saronni rimane al vento troppo presto, a trecento metri dall’arrivo, in leggero falsopiano, e viene superato da Marteens, fenomeno delle volate ristrette. Seguirono polemiche a non finire durate tutto l’anno successivo in cui Saronni accusava Moser e viceversa, che si placarono soltanto quando Saronni riusci a infilare la famosa “Fucilata di Goodwood”, sua azione tipica, ma lì eseguita con un’esplosività fino ad allora mai vista, che gli valse il mondiale ’82.
L’anno successivo Saronni vinse ancora il Giro, quello dopo ce la fece – finalmente – anche Moser.
Sempre un mondiale, quello del ’92, segnò il cortocircuito di tutte le logiche su cui era stato preparato, e che faceva perno sulla rivalità degli anni 90: Bugno e Chiappucci. Per dire, el Diablo raccontava che molta della grinta per la sua più grande impresa gli era stata consegnata dalla rabbia del sapere proprio la squadra di Bugno al comando nel tentativo di andarlo a riprendere. Si diceva un mondiale preparato, costruito a tavolino, entro cardini ben precisi: una nazionale lottizzata era partita per Benidorm, in Spagna, Chiappucci aveva il suo paio di gregari, Bugno idem, e anche la terza punta Argentin aveva voluto i suoi. La corsa si era svolta come si svolge sempre quella strana gara che è il mondiale: continui scatti, e azioni ai limiti della esplicabilità. Così una fuga che includeva i capitani di tutte le formazioni più accreditate, fra cui Indurain e Chiappucci era stata ripresa da un gruppo di corridori senza alcuna possibilità di vincere, e – arrivati alla volata finale – la squadra italiana aveva in Bugno l’unico che poteva dare qualcosa allo sprint. Ma Bugno dopo aver tentato una fuga senza neanche la propria di convinzione, e mostrando evidentemente quanto subisse l’effetto psicologico di una stagione fallimentare (per di più da campione in carica!), era impantanato nel suo umore nero. Ci provarono i suoi gregari a smuoverlo, e ci provò il CT Martini, ma niente da fare, non voleva saperne. La corsa si avviava a una facile vittoria del francese Jalabert, uno quasi imbattibile in circostanze come queste.
Fu allora che saltò il banco. Giancarlo Perini andò da Gianni Bugno. Perini vestiva la maglia azzurra, ma la vestiva perché ce l’aveva voluto Chiappucci, Bugno era un rivale acerrimo. Eppure.
Ora prendete le parole “stronzo” “figlio di” “non scassare” “ti spacco la faccia”, mischiatele come volete, ripetendole anche varie volte, e avrete una lontana approssimazione di quello che Perini rispose a Bugno quando questi ebbe il coraggio di dirgli “non sto bene, fa’ la tua corsa”. Il miracolo fu che Bugno, che come grinta non era mai stato un leone e sovente sprofondava in crisi depressive, diede retta al gregario del suo avversario-nemico e eseguì la sua richiesta di seguirlo fino all’arrivo. Un gregario di nome, che di fatto diventava un capitano tanto ascoltato da impartire ordini. Perini tirò la volata a Bugno, la tirò male, spostandosi troppo in anticipo (Perini non aveva mai tirato una volata), e Bugno si trovò indietro di undici anni: al vento troppo presto, a trecento metri dall’arrivo, in leggero falsopiano, contro un fenomeno delle volate ristrette. Ma Bugno doveva eseguire l’ordine del suo gregario: e vinse.

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