marteDIcorsa
Volevo spiegare a degli amici che il ciclismo è lo sport più romantico che c’è, e allora ho provato a scrivere. E scrivere ciò che raccontavo scrivendo. Così, ogni martedì, per un mese. Io, per me, mi sono convinto. Anche troppo, a rileggere il tono troppo denso?
Com’è logica
La logica è una dottrina ferrea, quasi sillogistica. Utile, il più delle volte. Ha delle esigenze, però, quantomeno in occidente, quantomeno da 2300 o 2500 anni. Dall’avvento della filosofia possiede – forse detiene – delle regole che si potrebbero scrivere, fin da Aristotele, forse già da Eraclito.
Poi ci sono le emozioni, i condizionamenti, i confini più labili e i sentimenti. Che non sono necessariamente illogici, ma talvolta sì.
Qualcuno le chiama, non a caso, regole-non-scritte, sono doveri, spesso morali, che vanno rispettati ma soprattutto onorati: ogni appassionato deve, per contratto, apprezzarle. E lo farà proporzionalmente alla passione che ha per quello sport, per quella dottrina, o per quella varietà di cibo.
Spesso sono consuetudini per nulla ragionevoli tranne che per chi le subisce, per chi ne è parte.
Questo fa sì che si definisca logico quello che è tutto fuorché logico, ma irrazionale, romantico, inspiegabile. Anzi, difficile da spiegare con parole, specie se poche; un’opera impervia: quasi come scalare in successione il Duran, lo Staulanza, la Marmolada, il Pordoi e il Sella. “Quasi come”, per il Rispetto Del Sudore, che è un’altra delle regole-non-scritte dell’appassionato alla bicicletta: alla, non della.
Insomma: quel giorno era il 2 giugno del 1998 e si scalavano in successione il Passo Duran, la Forcella Staulanza, il Passo Fedaia-Marmolada, il Passo Pordoi e il Passo Sella. Marco Pantani, corridore fragilissimo, fortissimo e fragilissimo, non aveva ancora vestito la Maglia Rosa in una carriera costellata di vittorie e infortuni già da un lustro. Il 3 giugno con Quella indosso avrebbe dominato l’Alpe di Pampeago, il 7 giugno L’avrebbe portata a Milano dove, salvo rare e argomentatissime eccezioni, si conclude ogni anno il Giro d’Italia.
Il ciclismo è così, sarà per quell’impronta nazional-popolare che hanno i bagni di folla, e i ciclisti che passano così vicini alle centinaia di braccia tese a incitare (tutti, senza eccezioni) i corridori; sarà per la vivida presenza degli atavici sentimenti di cui già sopra, o per gli immancabili paesaggi e monumenti quasi sfiorati – sui quali cade sempre una parola del commentatore televisivo a rilevarne l’interesse artistico – che ogni appassionato custodisce come testimonianza della culturalità del proprio sport in opposizione ad altri che hanno la principale colpa di essere (ormai, un tempo era diverso) più popolari.
Sarà chissà cos’altro, ma il carrozzone a due ruote di tifosi dei ciclisti e ciclisti dei tifosi ha sempre un che di tradizionalista, un sapore vagamente reazionario. Poniamo il caso di trovarsi a Courmayeur – o in pressappoco qualunque località in qualche modo caratteristica dell’Italia, della Francia, delle Ardenne, o delle Fiandre – e fra una discesa o uno skylift inciampare in un altro innamorato delle bici: è sufficiente dire con tono tranquillo, quasi en-passant, “quì nel ’59” ha stravinto Charly Gaul (il lussemburghese Gaul stava alle salite come il brasiliano Garrincha stava ai dribbling: c’era da chiedersi se esistessero prima del loro avvento. E se per i dribbling è un’ipotesi tutto sommato accettabile, per le montagne l’opera risulta ben più ardua…) si può star certi di aver guadagnato la massima considerazione di quella persona, oltre che un amico (nei casi più sfortunati un passatempo) per il resto della villeggiatura. Perché il ciclismo vive nella memoria: ogni vero appassionato ha un foglio con segnate tutte – ciascuna per ciascuna – le più importanti vittorie dei migliori ciclisti di tutti i tempi, qualcuno su un quaderno, qualcuno sul computer, qualcun altro – più professionale – in testa.
Pantani non l’aveva mai fatta quella salita, e il passo Fedaia è a 2047 metri sul livello del mare, mica un cavalcavìa. “Ma quando comincia ‘sta Marmolada?” chiede a un gregario; “guarda che ne abbiam già fatta metà…”, risponde Conti. La prima domanda, in realtà, era stata di quest’ultimo: “ma quando parti?” gli aveva chiesto. Un po’ perché aveva piacere a vedere Pantani scattare e andare a vincere, e un po’ perché il lavoro e la fatica di un gregario terminano nel momento in cui il proprio capitano scatta: quando non c’è più la necessità di coprirlo o stargli davanti cercando di tenere duro il più possibile insieme ai più forti della corsa, il Conti di turno può lasciarsi sfilare, e proseguire a velocità da cicloamatore, magari terminando con la cosiddetta “Rete”, il gruppo dei peggiori in salita, il cui unico pensiero nelle tappe di montagna è tagliare il traguardo entro il tempo massimo.
A quel punto il Pirata (anche i soprannomi fanno la loro parte nella sceneggiatura ciclistica, Gaul era “l’Angelo della Montagna”) scatta. Gli stanno dietro Giuseppe Guerini e Chepe Gonzales, poi solo Guerini.
Giuseppe, “Turbo”, Guerini è un corridore onesto, ora a fine carriera, negli ultimi anni novanta ha avuto il suo apice conquistando discreti successi (considerando che al via dei più grandi giri prendono parte 180 corridori), ha vinto una tappa al Tour de France e una al Giro, due podi nella Corsa Rosa, qualche piazzamento in classifica generale, e molte (perlopiù tentate) imprese. Un bravo atleta quindi, ma non un campione. Uno di quelli che non ha mai potuto nutrire velleità di vittoria finale, e che prendeva parte alle corse con l’obiettivo di vincere una tappa, o provarci.
La bicicletta è uno sport di squadra, e di signorilità. Poi viene l’agonismo, e la prestazione singola. Se hai una squadra che ti “tira”, un corridore (meglio se più d’uno) – detto gregario – che pedala con te, che a turno prende l’incombenza di dare il ritmo e stare davanti, che ti ‘taglia’ il vento, fai la metà della fatica. Non la metà per dire, la metà e basta.
Da questo semplice concetto derivano strategie e ritmi, ciclisti che tirano il gruppo per riprendere dei fuggitivi giacché hanno in squadra qualche corridore bravo nello sprint finale (e i premi sono equamente suddivisi fra tutti i membri della squadra, quello che vince e quello che arriva ultimo) o corridori – poco signorili a dire il vero – che si mettono in coda, “succhiano le ruote” recita il gergo, per avere più energie nel finale.
Sport di squadra e signorilità, si diceva, Pantani con Guerini, da soli e senza squadra: non rimane che la signorilità. È interesse di Guerini che la fuga vada in porto, ma è ancor più interesse di Pantani: vincere e staccare tutti gli altri significherebbe guadagnare preziosi secondi sugli avversari e, nella migliore delle ipotesi, conquistare la Maglia Rosa. Il compagno di fuga potrebbe quindi stare a ruota, aspettare, sfruttare le forze del miglior scalatore in circolazione. Invece lotta, combatte, sale le tre cime insieme a quello che presto diventa il capoclassifica virtuale. La loro azione congiunta raccoglie il plauso delle centinaia di migliaia di tifosi (una tappa attesa può mediamente vedere, letteralmente assiepati, anche duecento o trecento mila tifosi saliti in cima alle montagne il giorno precedente con camper o rifugi di fortuna), dello sto(r)ico commentatore Adriano de Zan, dei loro direttori sportivi.
L’entusiasmo è frenetico, ma l’ammirazione per quello che è accaduto, e soprattutto per quello che sta per accadere è forse minore di quella che si immaginerebbe in altri lidi: fra signori, la signorilità è dovuta. Noblesse oblige.
Sul traguardo Marco Pantani lascia a Giuseppe Guerini l’onore della vittoria (quello che rimarrà il suo unico trionfo al Giro). Il romagnolo indossa così la sua prima Maglia Rosa. Non disputando lo sprint – e permettendo così all’avversario di coronare anche la propria fuga – fa soltanto ciò che tutti si aspettavano. Quel gesto, l’ennesima iterazione del gesto del lasciar vincere un compagno di avventura con un palmares meno ricco, è – se è dato fotografare un’abitudine – il ritratto del ciclismo.
Ayrton Senna, forse il miglior pilota di sempre, lasciò passare Gerhard Berger nel Gran Premio del Giappone che lo consacrava per la terza volta Campione del Mondo. Era il 1991, e quel gesto, a favore di un compagno di squadra che non aveva ancora vinto un gran premio, fu salutato con l’ammirazione, e celebrato (a ragione) come la testimonianza della sportività e della classe di quel gran campione, in pista e fuori pista, che era Ayrton Senna.
Qui è diverso.
Qui è De Zan, con la consueta signorilità, a sentenziare in cronaca diretta: “…e come logica voleva, è Guerini a vincere la tappa”.
Come logica.
e8 passato da me (ovvero, dalla mia citte0, cuneo) e ci sono stati grdnai festeggiamenti, notte gialla con tanto di concerto gratuito in piazza, manifestazioni di tutti i tipi e per tutti i gusti, sfilate ecc….effettivamente, si muove una grdnaissima macchina sportiva ma anche commerciale, uno dei bussines pif9 grdnai dopo i mondiali e le olimpiadi, pare, almeno a sentire gli esperti.Comunque e8 stata una bella esperienza, anche se non ho idea quanto sia costato al mio comune rubare questa tappa…..