Non fatece largo – Diario dalla Palestina 33
Nablus non mi ha entusiasmato, ci hanno fatto fare il solito giro da turisti che turisti non sono, la peggior strada del campo profughi, varie tombe dei martiri, etc.
Effettivamente l’ambiente è molto diverso da Betlemme, ma non ho mai avuto la percezione che qualcuno ci volesse far male o rapire, certo solo in quanto stranieri (e il paradosso è che lì non ci va nessuno che non sia dalla parte dei Palestinesi), quand’anche accompagnati, c’era chi ci mandava a quel paese – sarà che «fuck you» è l’unica cosa che sanno dire in inglese? – qualche bambino che ci tirava la verdura, etc.
Devo dire che mi sono trovato a disagio, un po’. Umberto e Angela (un’altra), insieme a Gabriele e Andrea, sono altri quattro volontari che sono venuti per due settimane. Al di là delle loro idee politiche, diverse dalle mie, il loro approccio alla città e alle cose che ci dicevano era completamente descrittivo, acritico. Questo ci ha portato ad ascoltare cose false, cose illogiche, e cose abominevoli.
Non era solamente un problema di partigineria, quella evidente, nel trascurare completamente le cose meno utili al proprio pensare – come il tappezzamento di manifesti di martiri, nessuna indignazione espressa per questo, ma tanta per cose oggettivamente molto più irrilevanti – ma quanto un problema di approccio, come dicevo in precedenza: l’ossessivo refrain del non giudicare e il giustificazionismo speculativo (se ha detto questo concetto allora l’avrà detto in questo senso).
Si è parlato della strada che i martiri hanno costruito per la Palestina, del controllo di Israele sui media, di peggio dell’Apartheid. Di bombardamenti indiscriminati su case, solo per terrorizzare (la mia domanda: ma quindi funziona? non abbiamo sempre detto, giustamente, che le azioni violente fomentano il terrorismo? è rimasta inevasa). Altro.
Il paradosso è che forse è stata proprio l’apertura a teorie non proprio ortodosse dei nostri compagni di ventura, a far sentire così a proprio agio il ragazzo che ci portava da esprimere tutti i suoi pensieri, anche quelli che solitamente non-si-dicono-agli-europei.
Per quello che abbiamo visto è un altro mondo: avremo visto sei donne per strada, in qualche ora, e nessuna da sola. Per quello che abbiamo visto, comunque: abbiamo vissuto poco la città, la gente.
L’unico momento in cui siamo stati a contatto con le persone è stato il check-point, quello da dove tutti i cittadini di Nablus devono passare per uscire dai dintorni della propria città. Un’attesa lunga, ma non feroce: questo per merito dei palestinesi lì in coda che, risucchiati in quella mandria lunga più di venti minuti, non erano né sfrontati né rassegnati, non volevano sfidare i soldati ma cercando di non far arrendere la propria voglia di vivere. Quel momento, forse in quella condivisione (ci volevano far passare avanti, a noi i soldati non avrebbero fatto problemi), mi è sembrato probabilmente l’unico in cui ho avuto la sensazione di aver vissuto Nablus; quei dialoghi sardonici, quegli scambi di battute con la gente in fila durante quel periodo di attesa imposta mi hanno tanto ricordato quel tipo di canzonatoria indolenza, tipicamente romana, che a me così piace. Che qui, dove violenza risponde a sopruso che risponde a violenza, ci vorrebbe sempre tanto.
E nei miei sogni di bambino me li sono immaginati tutti, proprio tutti, che iniziavano a cantare in coro «ma che ce frega, ma che ce ‘mporta…»
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